La priorità, adesso, è consentire alle imprese di disporre della liquidità per riempire il vuoto di incassi delle ultime settimane e far ripartire il più possibile la nostra economia. Si tratta di creare le condizioni perché siano di nuovo tirate su le saracinesche dei negozi, riaperti i capannoni industriali, riassicurati stipendi e salari (che tengono in piedi “una” domanda interna, nell’attesa che essa riesca anche a tornare su livelli adeguati per un Paese come il nostro), e garantiti al Paese i necessari approvvigionamenti, non solo alimentari. Questa la via, unica, per evitare milioni di disoccupati, che innescherebbero fra l’altro tensioni sociali di dimensioni inedite persino rispetto ai nostri anni più bui.
Le ricette possibili per realizzare in concreto questa straordinaria (e concentrata, in poco tempo) immissione di liquidità, sono in astratto molte. Ivi inclusi l’helicopter money ideato dal premio Nobel Milton Friedman nel 1969, e il quantitative easing.
Il governo ha puntato, nell’ultimo decreto legge, sulla diversa soluzione di un articolato sistema di garanzie pubbliche per l’accesso al credito bancario, che capiremo nei prossimi giorni se riesce a reggere la sfida di un tempo che sembra correre a velocità doppia del solito.
Tutte queste ricette sono in ogni caso legate a due imperativi: fare subito e fare bene. Per fare subito, intendo fare adesso, immediatamente. Per fare bene, intendo dire dare liquidità a chi ora ne ha bisogno per riaccendere il motore della produzione.
Questi ultimi, occorre dirselo con franchezza, saranno una platea ampia, molto ampia, tanto ampia che nell’ambito di essa il poco tempo a disposizione impedirà, verosimilmente, di distinguere a sufficienza le diverse “storie” individuali, dal punto di vista del pregresso rapporto con gli obblighi fiscali (dal cui assolvimento si trae, come tutti sappiamo, la provvista finanziaria che tiene in piedi il Paese e consente allo Stato di intervenire, a vantaggio di tutti, in momenti eccezionali come questi).
È possibile, se non probabile, che in questa peculiare situazione parte della liquidità che lo Stato immetterà nel sistema economico italiano finisca anche a chi non si è distinto in positivo, in passato, nel rapporto con i doveri fiscali cui tutti siamo tenuti. È possibile, se non probabile, cioè, che la ragion pratica finisca per (impossibilità materiale di fare in poco tempo diversamente) prevalere sulla ragione etica.
Come potrà il Paese riuscire a digerire un boccone così amaro, anzi amarissimo?
La condizione minima è un grande, rinnovato e serio Patto fiscale nazionale, fra Stato e cittadini, ad iniziare da quelli che in tutti questi decenni hanno portato sulle spalle il peso del fisco italiano anche per coloro che a quei doveri si sono sottratti. Perché il fisco italiano ha certamente mostrato limiti molto importanti (pressione complessiva troppo alta, bassa capacità di cogliere la forza reale dei crediti di imposta nel generare un effetto moltiplicatore del gettito, debolezza con i forti e forza con i deboli, ecc.), ma i 100 miliardi di costante evasione fiscale (prima del coronavirus, ovviamente) sono bene impressi nella mente di tutti o quasi.
Questo Patto fiscale nazionale dovrebbe perciò contenere, anzitutto, la garanzia – declinata in forma molto cogente, molto efficiente e molto trasparente – che, beninteso dopo lo sforzo collettivo di adesso (per alcuni, l’ennesimo), e quindi dopo che l’economia italiana sarà ripartita, non si tornerà come se nulla fosse accaduto al punto di partenza, sul piano dell’evasione fiscale. Ogni altro ragionamento, viene dopo.
Predisporre un’adeguata azione di contrasto per non tornare su livelli monstre di evasione fiscale, tuttavia, non basta. In parallelo, occorrono almeno altre due cose.
Riaprire con risolutezza il cantiere della riforma fiscale, eterna fabbrica di San Pietro, produttrice di grandi e pensosi dibattiti ma di poche innovazioni che abbiano segnato reali punti di svolta. A questo Paese serve un fisco più calato nelle dinamiche del presente (nazionale e globale), più equo, più semplice, più digitalizzato. Non è impossibile, basta volerlo. E, dopo il Covid-19, è necessario volerlo.
Infine, rinnovata azione di contrasto all’evasione fiscale e nuovo sistema fiscale dovranno necessariamente accompagnarsi a un nuovo modello di giustizia tributaria, che offra a tutti la garanzia di reale autonomia, anche organizzativa, dal Mef, di elevazione del livello medio delle decisioni, e di assenza di situazioni opache. Anche qui le ricette possibili sono in teoria molte, mentre una certamente non va bene: non fare nulla.
Tutto questo dovrà essere pronto per andare a regime quando la ripresa economica del Paese sarà arrivata, ma va discusso – e legificato – adesso. Non è più tempo di promesse, ma di patti fiscali nazionali dagli obiettivi di fondo ben chiari e dal contenuto cogente, efficiente e trasparente.