Ormai è oggetto di una pressione sul governo insistente, sistematica, corale, dal Nord al Sud del Paese: bisogna riaprire le fabbriche non in produzione – in piena sicurezza (certificata e certificabile) dagli organi preposti per chi ci lavora, compresi ovviamente i loro imprenditori – ma l’esecutivo deve far ripartire ben prima del 3 maggio settori trainanti del nostro manifatturiero che altrimenti – lo stanno paventando non solo nell’Italia settentrionale ma anche in tante aziende del Mezzogiorno – rischiano di perdere irreversibilmente quote sui grandi mercati internazionali, a fronte di competitor agguerriti che non vedono l’ora di poterci scalzare da posizioni che l’industria italiana si era conquistata con grandi sacrifici e che erano state difese negli anni con assoluta determinazione.
Ma molti imprenditori e manager, pur con qualche comprensibile (ma non condivisibile) ruvidezza incominciano anche a porsi con malcelata preoccupazione la seguente domanda: se malauguratamente queste posizioni fossero perdute, chi ce le farebbe recuperare? Forse l’Istituto superiore di Sanità? O il Consiglio superiore di Sanità? O qualcuno degli illustri virologi ed epidemiologi che in Italia e all’estero, intervistati ogni giorno da quotidiani e televisioni, non hanno perduto occasione in queste settimane per esprimerci le loro valutazioni sulla pericolosità del virus e le previsioni su picchi, curve e andamenti della pandemia, quasi mai coincidenti – spiace rilevarlo – le une con le altre? Autorevoli epidemiologi – ha poi aggiunto maliziosamente (sia pure in privato) qualche sindacalista – professionalmente “garantiti” dal loro impiego nella Pubblica amministrazione e remunerati con rilevanti emolumenti accreditati mensilmente sui loro conti correnti.
E, pur apprezzandosi la nomina e il lavoro del dott. Colao alla guida della task force che dovrebbe aiutare Palazzo Chigi nel definire le procedure per avviare la fase due, si potrebbe osservare che non v’era certo bisogno insieme a lui di tanti e pur autorevoli accademici per individuare tempi, modalità e priorità per l’inizio della suddetta fase che, peraltro, in molte zone del Paese, e in specifici segmenti produttivi facenti parte di filiere anche molto lunghe legate ai comparti indispensabili, è già partita tramite stringenti dialoghi quotidiani fra aziende e Prefetture. E poi alcuni degli autorevoli accademici della task force appena costituita – lo scriviamo senza alcun intento polemico, ma come semplice constatazione leggendo i loro curricula – lavorando all’estero forse conoscono ancora poco le fabbriche italiane, e nient’affatto molte di quelle localizzate nel Mezzogiorno, nelle cui regioni i siti di automotive, aerospazio, siderurgia, petrolchimica, Ict, meccanica pesante, agroalimentare e cartotecnica costituiscono stabilimenti di rilievo strategico nazionale dei rispettivi settori.
Ma il punto dirimente su cui bisogna essere molto chiari a livello politico è che deve essere il governo nella sua collegialità – ascoltando certo con grande e doverosa attenzione il Comitato tecnico-scientifico, ma non limitandosi ad ubbidire sic et simpliciter ai suoi suggerimenti – a decidere il riavvio delle attività nelle fabbriche al momento non attive. Naturalmente bisognerà farlo solo in condizioni di piena sicurezza organizzativa, con l’adozione concordata con i sindacati di procedure idonee e di tutti i dispositivi di sicurezza necessari, e con l’augurio che si ponga fine (una volta per sempre) alla querelle non più sopportabile sulla loro persistente scarsezza o irreperibilità.
Non è stato forse nominato un Commissario ad hoc per i loro approvvigionamenti? E non sono state poste al lavoro numerose aziende italiane per produrre i DPI? Bene, allora quanti se ne stanno già producendo e quanti se ne riusciranno a produrne ed entro quanto tempo? Altrimenti, a cosa sarebbe servita una nomina commissariale ad hoc, impegnando peraltro a ricoprirne la carica un manager prestigioso come Domenico Arcuri?