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Perché difendere il siderurgico non basta. L’analisi del prof. Pirro

Il Siderurgico di Taranto, pur con i suoi complessi e ben noti problemi, resta una grande risorsa impiantistica al servizio del Paese e, con tutte le misure di sicurezza necessarie a tutela della salute degli addetti che sono chiamati a lavorarvi, deve essere tenuto (o riportato) in condizioni operative capaci di rispondere ad una domanda di coils e lamiere che con la ripresa di attività manifatturiere già in corso in Italia, o di imminente riavvio, potrebbe presentarsi anche molto sostenuta.

Tale prospettiva dovrebbe indurre anche il top management del sito ad assumere linee di condotta nei confronti delle aziende dell’indotto in grado di rispettare la tempistica dei pagamenti sia per le prestazioni già erogate e fatturate, e sia per le nuove attività da avviarsi nello stabilimento. Ma anche le imprese subfornitrici hanno di fronte un’occasione forse irripetibile per avviare un percorso che dovrà essere profondo e strutturale di efficientamento prestazionale, maggiore qualificazione dei propri servizi, consolidamento economico-finanziario, aggregazione consortile e diversificazione di clientela, perché – come sanno tutti coloro che da lunghi anni ormai lavorano nel vasto universo delle subforniture per l’acciaieria – nei prossimi anni non si potrà tornare al passato, soprattutto se verrà perseguito il progetto di parziale riconversione impiantistica tracciato nell’ultimo accordo fra governo, Arcelor Mittal e amministrazione straordinaria. Del resto un nucleo di società impiantistiche (Comes, Tecnomec, Modomec, Stoma, Costruzioni Quadrato, ecc.) ha già avviato da tempo processi di diversificazione di mercati, acquisendo commesse significative e remunerative anche in ambito internazionale spesso in associazione con grandi engineering capofila italiane ed estere che le hanno selezionate e aggregate per le loro offerte risultate poi vincenti.

Comunque, proprio alla luce del persistente ruolo dello stabilimento ionico, è pienamente condivisibile a nostro avviso l’affermazione del segretario nazionale della Uil Palombella che nei giorni scorsi ha definito opportuna e soprattutto “inappellabile” la decisione del Prefetto di Taranto di autorizzare la commercializzazione dei prodotti del siderurgico: una dichiarazione con la quale il dirigente sindacale ha preso implicitamente le distanze da chi – essendo ormai da tempo preda di forti pulsioni antindustrialiste – non perde occasione per scagliarsi con iattanza crescente contro l’attuale gestore dell’Ilva, ma anche contro l’amministrazione straordinaria della società, con atti la cui dubbia legittimità è stata eccepita nelle sedi competenti da chi ritiene di esserne danneggiato.

Ed inoltre affermare che in questo caso il Prefetto avrebbe ceduto alle logiche del “profitto” rivela ignoranza della netta differenza che intercorre fra ricavi e profitto: infatti riuscire a vendere – e non è del tutto scontato che si riesca a farlo – quel poco acciaio che si è prodotto significa non aggravare ulteriormente le perdite che anche per quest’anno si preannunciano pesantissime nella gestione del siderurgico, e non certo fare profitti, come sanno tutti gli uomini d’azienda che si rispettino.

Allora, un conto è chiedere con forza come fanno i sindacati il rispetto (assoluto) in fabbrica delle norme di sicurezza anche per difendersi dalla pandemia da Covid-19 con tutti i dispositivi di protezione individuale necessari, e con l’adozione di misure di gestione degli impianti che diminuiscano ulteriormente (nei limiti del possibile) la già ridotta manodopera, comunque assicurandone un certo numero per mantenere in sicurezza gli impianti che, è bene ricordarlo a chi lo avesse dimenticato, appartengono ancora ad una proprietà pubblica; e ben altro conto, invece, è pretendere di imporre il blocco totale della produzione dell’intero sito, iniziando dall’area a caldo per finire a tutte le lavorazioni a valle – il che significherebbe porre fuori mercato forse per sempre il Siderurgico ionico – per emissioni che comunque devono essere drasticamente ridotte nei limiti di legge, sotto il controllo degli organi preposti a misurarle.

Ma (forse) a Taranto qualcuno in fabbrica e in qualche istituzione pubblica incomincia a pensare che – in una situazione in cui il governo per circostanze eccezionali è impegnato ad assicurare ai cittadini che ne hanno bisogno un qualche reddito con una vasta gamma di interventi – si potrebbe anche ipotizzare il passaggio da una forma temporanea di sostegno al reddito individuale e familiare ad una invece a tempo indeterminato? Insomma, (pensano taluni) tutti gli ex dipendenti dell’Ilva senza lavorare potrebbero essere mantenuti anche a vita dallo Stato?

Per fortuna la stragrande maggioranza di operai, tecnici, quadri e dirigenti del Siderurgico, e con loro la popolazione della città, vuole difendere fabbrica e occupazione in logiche di piena ecosostenibilità del suo esercizio, ma anche di recuperata competitività delle sue produzioni necessarie all’industria meccanica italiana; e del resto questo imprescindibile presupposto, come detto in precedenza, è alla base dell’accordo che è stato sottoscritto nelle scorse settimane fra governo, amministrazione straordinaria e Arcelor Mittal che dovrà portare a nuovi assetti societari e impiantistici dell’acciaieria con un forte intervento dello Stato, con o senza la partecipazione della multinazionale franco-indiana, cui peraltro non bisognerebbe offrire altri alibi per abbandonare il campo.

Se però qualcuno a Taranto, a Bari, a Roma o a Bruxelles sta lavorando per sabotare quell’accordo, dovrà ricevere una risposta molto ferma da tutti coloro che hanno a cuore la difesa del lavoro, della salute e dell’industria nel capoluogo ionico e in Italia.

Ma difendere con forza il Siderurgico e il suo vasto indotto non è sufficiente per un forte rilancio dell’economia territoriale. Per tale ragione, anche in queste settimane è necessario far ripartire la definizione degli interventi previsti dal governo nel “Cantiere Taranto” con alcune modifiche aggiuntive. Ad esempio, per quanto riguarda l’ampliamento della base manifatturiera locale si potrebbero insediare nell’area, fra le altre, produzioni che in queste settimane di emergenza si sono rese necessarie in Italia per fronteggiare il Covid 19, ovvero dispositivi di protezione individuale, macchinari per terapie intensive, biomedicali, ecc. Al riguardo a Taranto esiste già un’impresa che sta realizzando letti per degenze ospedaliere a tecnologia molto avanzata. È stata inoltre ventilata l’ipotesi di un insediamento nel territorio della Ferretti per costruire grandi yacht: bene, ma altra imprenditoria del Nord o estera, ma anche pugliese, potrebbe essere attratta ad investire nel territorio alla luce delle provvidenze della Zes ionica per tornare a costruire, ad esempio, piattaforme petrolifere. Inoltre, le filiere agroalimentari con le loro subforniture potrebbero essere rafforzate, guardando al più grande bacino apulo-lucano. Sono solo alcuni esempi, ma se ne potrebbero citare tanti altri. L’invito allora che rivolgiamo a chi sta seguendo per il governo e per la Regione i progetti del “Cantiere Taranto” e del Piano strategico elaborato per la sua area è quello di aprirsi ad un confronto vero e approfondito con tante competenze ed esperienze presenti in Puglia, nelle sue Università e nei suoi centri di ricerca, senza gelosie, invidie, e grette chiusure mentali dettate solo da presunzione di autosufficienza analitica e propositiva.

L’emergenza nazionale pertanto può e deve essere una grande occasione per l’allargamento della base produttiva italiana, e l’area di Taranto ha tutti i requisiti per essere parte integrante di un vasto piano di rinascita economica del Paese. Dobbiamo tutti rispondere come uomini di buona volontà ai messaggi che da lungo tempo ci lancia in difesa del bene comune l’arcivescovo monsignor Santoro, che hanno assunto una valenza particolare in questi giorni di festività pasquali.



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