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Trump e la tesi del virus prodotto a Wuhan. Giannuli spiega perché ora

All’inizio della pandemia, ebbe grande fortuna, in rete, la tesi che il coronavirus fosse un attacco batteriologico degli americani alla Cina, tesi poi ripresa a tratti dagli stessi cinesi (che, per la verità, non l’hanno mai rilanciata esplicitamente ma solo allusivamente) e poi da russi ed iraniani. La tesi era francamente bizzarra perché non si sosteneva su niente ed anche i “complottisti” più abili ed informati non riuscirono a portare altro che argomenti suggestivi.

Per la verità, c’erano molte ragioni per ritenere scarsamente attendibile questa teoria sin dall’inizio, ma non staremo qui a ripeterle. Comunque, per il principio per il quale la gente crede a quello che vuol credere, la tesi ebbe un certo successo.

Poi il 19 marzo l’equipe del Research Institute di La Jolla (Califirnia) annunciò con un articolo, sulla prestigiosa rivista inglese Nature, di aver condotto un’analisi sul Sars Cov-2 per giungere con certezza alla conclusione che il virus non era prodotto di una manipolazione genetica ma di una evoluzione naturale del ceppo dei coronavirus.

Per la verità, trattandosi di un istituto statunitense la cosa sarebbe potuta apparire come una excusatio non petita, ma l’assenza di contestazioni da parte di altre equipe scientifiche persuase i più che le cose stessero così.

Dunque, l’ipotesi della colpevolezza americana andò calando e fu rapidamente spazzata via dal furioso arrivo dell’epidemia negli Usa: il mondo è pieno di imbecilli, ma, tutto sommato, riesce difficile credere che ci sia uno tanto imbecille da tirarsi addosso una pentola bollente di queste dimensioni.

Sembrava giunta l’ora di dichiarare chiusa la questione e l’appellativo di “virus cinese” di Trump, sembrava un mero espediente retorico per ricordare le origini geografiche del virus e i colpevoli ritardi di Pechino nel comunicare l’esplosione dell’epidemia. Ma la questione sulle origini del virus è conclusa… o dovrebbe esserlo.

Ma le cose non sono mai così semplici e allora, perché Trump ed il segretario di Stato Mike Pompeo riaprono la questione suggerendo che ci sono motivi per pensare che si sia trattato di una fuga da laboratorio di un virus non naturale?

Ci sono due ragioni e la prima è la più semplice da capire: Trump è in piena campagna elettorale e non potrà giovarsi del cavallo di battaglia preferito (la ripresa, più o meno reale, dell’economia statunitense), perché è evidente che l’epidemia porterà in recessione gli Usa ed allora deve trovare un’altra clava con cui picchiare. Il nemico cinese è il migliore che potrebbe esserci: la sinofobia è sempre una carta buona da giocare negli Usa, poi una epidemia spinge sempre a cercare un colpevole, un untore e la Cina non è solo il paese di origine del microbo assassino, ma anche il paese con cui si stava litigando sino ad un minuto prima. Dunque, vada per la Cina.

Ma c’è una seconda ragione più raffinata: le cause intentate da molti cittadini americani contro il governo cinese per la violazione del Regolamento sanitario internazionale che ha lo scopo di “prevenire, proteggere, controllare e fornire una risposta sanitaria pubblica alla diffusione internazionale delle malattie, in modo commisurato e limitato ai rischi per la salute pubblica, e che eviti interferenze inutili col traffico e il commercio internazionale”. Regolamento rivisto nel 2005 (poco dopo la Sars) con l’obbligo di informare l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) “di tutti gli eventi che potrebbero costituire un’emergenza sanitaria pubblica di rilevanza internazionale nel loro territorio”. Anche questo accordo accettato e sottoscritto da Pechino. Al governo della Rpc si imputa la mala gestio della epidemia per non aver comunicato tempestivamente l’epidemia all’Oms rendendosi così responsabile del dilagare dell’epidemia (un virologo statunitense sosterrà che, se l’epidemia fosse stata denunciata in tempo, i casi si sarebbero ridotti del 95%).

Si parla, pertanto, di un risarcimento per 3.000 miliardi di dollari e, se altri si aggiungessero (ad esempio l’India, il Giappone o la Ue) la cifra potrebbe levitare ancora. Di che svuotare le casse della Pboc.

Ovviamente i tribunali americani non hanno potere di imporre alla Cina di indennizzare il danno, ma possono deferire la causa al la Corte internazionale.

È evidente che queste prime iniziative di privati cittadini sono solo una avanguardia dietro la quale arriverà una massiccia class action, quindi la costituzione degli stessi Usa in quanto tali.

In teoria, la Corte internazionale potrebbe condannare la Cina e, se questa non ottemperasse ad una sentenza di condanna, gli Usa potrebbero rivalersi sui depositi, sui beni e sui crediti dei cittadini cinesi e dello Stato cinese Pensate che bello per i bond americani nelle casse della Pboc che gli Usa potrebbero non pagare!).

In realtà le cose non sono così semplici per diverse ragioni. A parte il fatto che la Cina è ben rappresentata nella Corte Internazionale (la cui vice presidente è una famosa giurista che, peraltro, proviene proprio dall’Hubei), la causa presenta non pochi problemi sia in punto di prova (non sarebbe affatto semplice dimostrare e provare quando il governo cinese è stato cosciente della gravità del caso), sia in punto di valutazione del danno (parlare di un 95% di casi in meno è una rispettabile opinione, ma niente di più). Peraltro la Cina ritirerebbe fuori la teoria dell’aggressione batteriologica, anche solo per rendere eterna la causa. E ci sarebbero poi aspetti politicamente scabrosi: Pechino potrebbe sostenere che anche molti altri governi (primo fra tutti quello degli Usa, poi Inghilterra, Svezia, Brasile) hanno sottovalutato la pericolosità dell’epidemia (anche quando Italia e Spagna avevano ampiamente dimostrato quale fosse la sua potenza di urto) e tardato a prendere misure, per cui la responsabilità dei casi sarebbe quantomeno da condividere. Senza parlare di un tema ancora più scabroso, come quello dell’attività dei servizi di informazione e sicurezza: cosa accadrebbe se la Cina dimostrasse che qualche servizio segreto, ad esempio la Cia, fosse al corrente della cosa sin da dicembre? Imbarazzante vero? Sarebbe una causa lunghissima, insidiosa, di incertissimo esito.

Ed allora ecco che dal cilindro di Trump spunta il coniglio dell’incidente di laboratorio. Effettivamente, se fosse possibile dimostrarlo, sarebbe molto più facile sostenere la mala gestio cinese. Anche qui le cose non sono così semplici, anche perché lo studio dei californiani tornerebbe indietro come un boomerang, Però:

1. Intanto ci si fa una campagna elettorale

2. Si rintuzza la campagna di soft power cinese avviata con gli aiuti

3.  Si istigherebbero altri a far causa alla Cina isolandola.

Insomma non mancherebbero risultati già entro la fine dell’anno.


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