L’emergenza provocata dalla pandemia da coronavirus sembra portare finalmente al pettine i nodi che, negli ultimi anni, hanno rallentato e contrastato il cammino verso l’integrazione europea. Di temi sensibili e controversi idonei a “testare” quella solidarietà tra gli Stati membri che dovrebbe costituire naturale corollario dell’integrazione già ne erano emersi in passato, dall’accoglienza dei migranti, alle crisi del debito sovrano, dalle posizioni di politica estera (soluzioni dei conflitti extraeuropei) all’insorgenza dei sovranisti, all’origine, in un certo senso, di una nuova demarcazione tra gli schieramenti politici del Vecchio continente.
Ma l’emergenza pandemica crea necessariamente le premesse per una riconsiderazione urgente ed ineludibile del valore e dei contenuti della solidarietà tra i Paesi, anzi, direi proprio, tra i popoli dell’Unione. Quando, se non in un momento così drammatico e dagli sbocchi ancora incerti, quale quello che stiamo vivendo? Le conseguenze pesantissime, in termini di lutti, di sofferenze, di inevitabile compressione di libertà fondamentali e abitudini di vita quotidiana (spostamenti, riunioni, spettacoli, socializzazione, ecc.) per evitare il contagio, possiamo affrontarle soltanto con una piena sinergia di dimensioni “continentali”. Gli Stati europei investiti dal contagio sono chiamati a far fronte ad uno sforzo straordinario per ammortizzare gli effetti di una tendenziale “desertificazione” economica e produttiva e il rischio di una crescente disoccupazione, oltre, naturalmente, all’incremento del costo sociale dei servizi sanitari ed assistenziali. In queste condizioni, anche i più euroscettici forse individuano nelle istituzioni comunitarie la sola possibile ancora di salvezza. L’impegno per i singoli Stati nazionali coinvolti potrebbe rivelarsi “ultra vires”, per ciascuno degli stessi.
Il processo di integrazione è stato concepito per porre fine per sempre ai conflitti atavici nel Vecchio continente e per consentire ai popoli europei di far fronte, insieme, alle sfide e alle opportunità. Fino ad oggi, nonostante indiscutibili progressi sul piano dell’integrazione politico-costituzionale (Trattati di Nizza e di Lisbona), della solidarietà finanziaria (il quantitative easing e il ruolo di Mario Draghi), dell’impulso alla coesione sociale e allo sviluppo economico tramite i fondi europei, riserve, prudenze e, forse, anche egoismi nazionali hanno indotto talora dei rallentamenti nell’azione comune di fronte alle sfide importanti, alimentando, così, la propaganda delle correnti più scettiche e una diffusa diffidenza verso le istituzioni di Bruxelles e di Strasburgo.
Lo shock socio-economico determinato dall’insorgenza di questo nuovo nemico invisibile, che minaccia la salute e la vita con una capacità offensiva che potenzialmente non conosce confini, costituisce ora il vero banco di prova per l’integrazione europea. Non potremmo resistere ad un possibile prolungamento senza termini certi delle restrizioni, della chiusura di attività economiche e delle “distanze”, senza una larga condivisione di risorse e di spesa pubblica. Stili di vita, modalità di lavoro, tempi e quantità di produzione così diversi da quelli abituali indurranno necessariamente rinnovate forme di organizzazione sociale e deroghe a quei limiti rigorosi nella finanza pubblica e a quella prudenza nella spesa che hanno caratterizzato le politiche europee degli ultimi anni.
E gli strumenti da utilizzare dovranno essere condivisi in ambito europeo e vantaggiosi per tutti i Paesi membri, per tutelare famiglie, imprese, lavoratori e le singole persone più deboli e penalizzate dalla crisi.
Siano obbligazioni emesse congiuntamente dagli Stati europei, anche tramite la Banca europea per gli investimenti, l’utilizzazione di un Mes depurato dalle condizionalità limitative di una piena sovranità, o l’acquisto di titoli nazionali da parte di Bce – che in questo senso è già intervenuta in modo significativo -, o ancora il progetto Sure adottato dalla Commissione Ue per salvaguardare i posti di lavoro, o altre forme di condivisione che si possano individuare, questa, pur segnata dal dolore e dall’angoscia, è l’occasione da non mancare per imprimere una svolta decisiva alla coesione della costruzione comunitaria.
Questa volta, davvero, si potrebbe adattare alla presente congiuntura (cambiando, naturalmente… l’oggetto!) un motto mutuato dalla famosa risposta di Garibaldi al fido Nino Bixio, durante la battaglia di Calatafimi: “Qui si fa l’Europa o si muore”!