Manca un progetto, un tessuto culturale, un gruppo dirigente, una generazione che cerchi di rispondere a una domanda: “Quale Italia vogliamo?”. Nessun parallelismo possibile tra l’esperienza dell’Ulivo e quanto ora si muove attorno al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, tranne uno, del tutto casuale. E se a dirlo è Arturo Parisi, che proprio dell’Ulivo fu ideatore assieme a Romano Prodi, è d’obbligo ascoltare. Il fatto che il Conte di oggi, come Prodi di allora, non appartenga a nessuno dei principali partiti collocandosi quindi in una posizione intermedia è, prima di tutto, una coincidenza, ed “è onestamente pochino”. L’Ulivo, spiega il già ministro della Difesa e sottosegretario alla presidenza del Consiglio, era “un progetto da portare al governo perché guidasse l’Italia verso il futuro. Tutto l’opposto di ora. Mentre allora il governo era l’approdo, qua è il punto di partenza. Meglio: non il governo, Palazzo Chigi”.
Professore, ieri sul Sole 24 Ore D’Alimonte fa un parallelo tra l’esperienza dell’Ulivo e quanto si sta verificando oggi con l’alleanza di governo Pd-5 Stelle a guida Giuseppe Conte. Lei come vede questo parallelo?
Diciamo pure, infondato. Nella giusta convinzione, una convinzione che io condivido con lui, della necessità per la nostra democrazia di disporre di una dialettica e di una alternativa bipolare, D’Alimonte prova a ripartire da quello che abbiamo: l’alleanza di governo tra Pd e 5 Stelle. E si chiede se da essa possa nascere di nuovo uno stabile polo di centrosinistra. Una ipotesi invero tutt’altro che nuova. La stessa attorno alla quale lavorano da tempo i principali leader del Pd: da Franceschini a Bettini passando per Zingaretti.
Ma c’è un ma?
Proprio grazie all’approccio analitico e rigoroso di D’Alimonte, più che a una verifica dell’ipotesi, si approda a una sua falsificazione. Una cosa sono i bisogni e i desideri, un’altra la realtà. Le cose che non tornano sono di gran lunga di più di quelle che tornano. Diciamo pure che nel ragionamento ne torna una sola.
Quale?
Il fatto che il Conte di oggi, come il Prodi di allora, non appartenga compiutamente a nessuno dei due principali partiti, e appaia collocato da amici e nemici in una posizione intermedia. L’unico dato corroborato dai dati del sondaggio che espone. A parte che sulla somiglianza nella provenienza e nella percezione ci sarebbe da discutere a lungo, anche questa unica coincidenza tra Conte e Prodi è onestamente pochino. Forse come governante Conte assomiglierà pure, come si è sentito da alcuni, addirittura a Churchill, a Cavour, a Moro e a De Gasperi, ma per quello che Prodi è stato come leader politico gli assomiglia assai poco.
Nell’introduzione al libro “Il tempo dell’Ulivo” di Andrea Colasio (Il Mulino), a proposito dell’Ulivo, lei dice che era “il desiderio di una Italia nuova. Dire desiderio significa infatti dire ricerca, dire futuro”. Un desiderio che oggi non c’è?
Tolga pure il punto interrogativo. Perché in questo sta appunto la principale differenza con Prodi e l’Ulivo, e col tempo dell’Ulivo. Se l’Ulivo non fu mai un soggetto non per questo non aveva un progetto. Un progetto che fu la risposta alla domanda dalla quale partimmo.
La domanda “quale Italia vogliamo”?
Esatto. Un progetto nel quale gran parte del Paese non si riconobbe, ma poté non riconoscersi proprio perché era riconoscibile. E non era soltanto un progetto, era un tessuto culturale. E non era soltanto una cultura, era un gruppo dirigente. E non era soltanto un gruppo dirigente, era appunto il desiderio di una generazione. Un progetto da portare al governo perché guidasse l’Italia verso il futuro. Tutto l’opposto di ora. Mentre allora il governo era l’approdo, qua è il punto di partenza. Meglio: non il governo, Palazzo Chigi.
Sempre ieri Emanuele Macaluso ha detto a Formiche.net: “Il Pd deve chiedere ai 5 Stelle di stilare un nuovo comunicato, anzi un nuovo programma comune, in cui dichiarano e rivendicano di essere le forze del governo, e di avere una prospettiva per l’avvenire. Un vero patto politico”. Potrebbe essere questo un punto di partenza?
Come non concordare? È esattamente quello che il Pd e i 5 Stelle avrebbero dovuto proporsi all’inizio. Un patto politico, un programma comune o almeno un “contratto di governo”, l’unico accordo che due forze profondamente diverse possono realisticamente condividere. Molto molto lontano dall’amalgama auspicato da D’Alimonte. Un contratto di governo tra forze che si riconoscono diverse. Un contratto esigente che si predispongono ad esigere.
Eppure non ci fu nessun contratto…
Purtroppo la fretta e la furbizia presero la mano a troppi. Pur di mettere a frutto l’occasione, diciamo pure d’oro, offerta dal Papeete da un Salvini in braghe si preferì chiudere in due giorni un accordo sbragato: quell’accordo che appena l’anno prima aveva richiesto ai due ex alleati di governo tre lunghissimi mesi, e che in Germania e in Spagna ne aveva richiesti molti di più. Mi dispiace per Macaluso ma un accordo è serio solo se lo si cerca sapendo che non è scontato. E sapendo che se non si riconoscono e si sciolgono fin dall’inizio almeno i principali nodi politici, poi ci si ritrova ad affrontarli uno alla volta. Magari, come capita ora, nei momenti peggiori. La verità è che quello che fu evitato allora è ora inevitabile. È per questo che il governo si aggrappa all’emergenza e si appresta a coinvolgere il Parlamento con la richiesta del prolungamento dello stato di emergenza, fino al gennaio 2021. Per il momento.