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Così il Covid-19 gonfia nuove bolle finanziarie. L’analisi di Pedrizzi

“La Federal Reserve Bank stimava che il debito relativo ai prestiti auto negli Usa aveva raggiunto quota 1.200 miliardi (ed oggi sono 1.330), guadagnando il terzo posto sul podio dei debiti privati dopo i mutui e i prestiti destinati agli studenti, con un rischio di instabilità accentuato dal ricordo di quanto avvenuto dodici anni prima; – scrivevo nel mio libro Il Salvadanaio. Manuale di sopravvivenza economica (Guida Editori) –. Ed inoltre, “altra bolla che potrebbe saltare da un momento all’altro è quella relativa ai crediti al consumo che negli Stati Uniti ammontano a 3.840 miliardi di dollari” […] È questo il debito delle famiglie americane, che non solo è cresciuto rispetto alla crisi del 2007-2008, ma che è anche peggiorato in qualità: oggi circa il 27% dei consumatori americani è classificato ‘subprime’ (cioè poco affidabile). Questo accade perché si è spinto l’erogazione di prestiti a chi non è affidabile, favorita dalla politica ultraespansiva delle banche centrali, che incentiva la ricerca di rendimenti da parte degli investitori. Sono ‘subprime’ 73 milioni di carte di credito: record dal 2009. Si stima infatti che sia avvenuta tra il 2010 e il 2017 una crescita della fascia di debitori ‘subprime’ più a rischio dal 5 al 33% sul totale”.

Ora con la pandemia il mercato dell’auto, che ammonta a 1500 miliardi, è crollato e le banche non sanno più dove mettere i veicoli sequestrati ai debitori morosi e che dovrebbero essere rivenduti sotto costo. L’agenzia di rating Standard & Poors avverte che le perdite su questo fronte aumenteranno, raggiungendo complessivamente centinaia di miliardi di dollari. I prestiti infatti spesso sono molto superiori al valore della vettura e vengono fatti su redditi inesistenti. Le banche non hanno fatto troppi controlli su questi piccoli prestiti, erogati ad alti tassi d’interesse. E così questa bolla è cresciuta così come quella dei prestiti d’onore agli studenti universitari, che attualmente viaggiano intorno a mille cinquecento miliardi di dollari (1.500), a cui si aggiungono mille miliardi per carte di credito.

JP Morgan ha stimato una ulteriore flessione, nelle prime settimane di aprile scorso, dell’11,8% del loro valore. Una caduta che potrebbe innescare perdite multimiliardarie nelle divisioni di servizi finanziarie delle case produttrici di auto, nelle banche e società di credito. I prestiti auto utilizzati per gli acquisti hanno raggiunto picchi di 1.330 miliardi, lievitati del 5% in un anno e del 60% in dodici anni, pari al 7,4% dell’indebitamento delle famiglie.

Già prima della pandemia il 5% era in sofferenza. Gm Financial potrebbe subire subito perdite per tre miliardi, Ford Credit per 2,8 miliardi. Il debito alle famiglie che vale oltre 14.150 miliardi di dollari potrebbe esplodere da un momento all’altro. Su tutti i prestiti immobiliari che sono 9.950 miliardi, Ubs ha calcolato che il 10% potrebbe andare in sofferenza ed altri 110 miliardi di dollari in carte di credito sono sull’orlo dell’insolvenza.

In questa fase di bassi tassi di interesse sono tornate in auge le obbligazioni societarie, più rischiose rispetto ai titoli di Stato e miliardi di dollari sono stati pompati in fondi comuni che investiti in corporate bond. E c’è stato anche il ritorno delle obbligazioni di prestito collateralizzati (Collateralized Loan Obligation). Le Clo agiscono come fondi comuni: comprano un portafoglio di prestiti e poi li rivendono a fette agli investitori. Il rischio è diverso a seconda della tranche; e i prodotti più rischiosi sono quelli che per primi incorreranno in perdite se i prestiti non saranno rimborsati.

Anche i cosiddetti “leveraged loans”, i prestiti concessi a debitori fortemente indebitati, sono aumentati. Un altro prodotto, che sta incontrando di nuovo l’interesse degli investitori sono le obbligazioni strutturate basate su mutui ipotecari delle imprese.

Ma ai “titoli tossici” tradizionali si è aggiunto negli ultimi tempi “altra carta” pericolosissima. Molti investitori americani che sono a caccia di rendimenti alti si sono gettati infatti in uno dei segmenti più incerti e pericolosi del mercato, le obbligazioni legate a prestiti per grandi progetti commerciali, dagli alberghi ai centri commerciali. Nonostante il tasso dei default, superiore al 9%, sia a livelli record. Poi vi sono le “dividend recape”, le ricapitalizzazioni attraverso emissioni di bond o assunzioni di debito allo scopo di pagare dividendi, che sono diventate ormai un vero e proprio sistema di pagamento cedola. I fondi vogliono remunerare ad ogni costo i propri investitori, e il modo più semplice per farlo è di indebitare le società da loro controllate per finanziare dividendi. Si stanno gravando le società di nuovi debiti assolutamente improduttivi. Si tratta insomma di obbligazioni spazzatura, “junk bond”, che si stanno diffondendo. Quei prestiti servono poi a generare altre speculazioni: i finanziamenti agli immobiliaristi sono stati infatti cartolarizzati e poi inseriti in pacchetti di obbligazioni, la cui rischiosità è difficilmente calcolabile. La macchina dei “subprime” così è tornata a marciare a pieni giri. I fondi di “private equity” americani hanno occupato lo spazio lasciato libero dalle banche regionali americane sul fronte dei finanziamenti immobiliari.

Lo scoppio della bolla immobiliare del 2007 fece “saltare” 475 istituti regionali e i fondi di “private equity” sono stati i più veloci a entrare nel business anche se il trend è in diminuzione. Le ragioni sono diverse: moltissime aziende si sono viste abbassare il giudizio a livello “junkdalle agenzie di rating, ma questo fenomeno è stato compensato dalla creazione di una enorme massa di liquidità, che ha permesso alle aziende di raccogliere fondi a bassissimo costo. Ed ora il mondo è di nuovo sull’orlo del precipizio e ci sono tutte le premesse perché riesploda la crisi con più virulenza.


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