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Equità, crescita ed equilibri multipli. A lezione dal prof. Baldassarri

A fronte delle radici della crisi, le colonne portanti dei rimedi e della rifondazione sono una governance mondiale della globalizzazione e una Europa Federale capace di esserne forte protagonista, storica-economica-sociale. É bene però mettere qui in chiaro una premessa che è frutto di una solida e comprovata teoria economica consolidata negli ultimi cinquanta anni.

Si tratta della relazione che corre tra crescita economica ed equità distributiva delle risorse.
Tanti decenni fa, all’inizio di questo dibattito, molti pensavano che per attivare e sostenere una consistente crescita economica occorresse accettare una distribuzione dei redditi fortemente iniqua. Concentrare il reddito nelle fasce alte dei ricchi avrebbe infatti comportato che questi avrebbero attivato forti risparmi ed investimenti tali da avviare la macchine dello sviluppo. Qualcuno, più caritatevole, sosteneva inoltre che con la crescita economica la società avrebbe avuto poi le risorse per…aiutare i poveri.

Al contrario, altri pensavano che occorresse partire da una distribuzione dei redditi egualitaria (tutti uguali secondo un vetero colletivismo da soviet) ed il processo di risparmio ed investimento fosse responsabilità esclusiva dello Stato, unico legittimo titolare-proprietario dei mezzi di produzione.

All’inizio degli anni ottanta dello scorso secolo, invece, qualcuno cominciò a pensare che la relazione tra crescita economica ed equità distributiva non fosse…una linea retta, ma potesse essere più correttamente rappresenta da un andamento curvilineo a schiena d’asino. Infatti se in una società ci sono pochi ricchi e ricchissimi e tanti poveri e poverissimi la crescita non si attiva per la semplice ragione che non c’è mercato abbastanza ampio per i beni da produrre. A chi si vendono case, automobili, elettrodomestici e beni alimentari di quantità e qualità più elevate?

D’altro lato, però, se in una società i redditi sono uguali per tutti si azzera la molla che fa scattare risparmio ed investimento e certamente lo Stato, unico proprietario dei mezzi di produzione, tende a sbagliare nella sua rigida pianificazione e non può usare le forze del mercato per determinare i prezzi dei beni ed una efficiente allocazione delle risorse.

Finché si tratta di produrre cannoni, missili o bombe nucleari si può anche avere qualche successo. Ma se si tratta di produrre beni alimentari per tutti, oppure lavabiancherie e motorini ecc. i “prezzi” stabiliti ex ante dal pianificatore portano nei fatti o all’accumulo in magazzino di prodotti che nessuno compra o a lunghe file di attesa davanti a negozi privi dei beni che la gente vuole. Nel primo caso si accumulano scarpe di numero 40 mentre la gente le vuole dal 38 al 44. Nel secondo caso le file di attesa nascondono di fatto l’inflazione che “statisticamente” non c’è.

Su queste due situazioni estreme, la teoria economica ha consolidato una relazione a schiena d’asino tra crescita ed equità. Ciò significa che esiste un crinale che determina la maggiore potenzialità di crescita con la migliore e più equa distribuzione dei redditi.
In sintesi: se ci sono pochi ricchi e tanti poveri l’economia non cresce e la distribuzione dei redditi resta fortemente iniqua; se tutti sono uguali la distribuzione dei redditi è perfettamente uguale per tutti, ma senza crescita, l’equità si attesta su bassi livelli per tutti, cioè tutti sono uguali ma tutti sono poveri; se si percorre la giusta misura tra crescita ed equità si ottiene il massimo del reddito e la migliore delle equità distributive per di più a livelli sempre crescenti per tutti.

A ben vedere la caduta del blocco sovietico e del muro di Berlino poggia su questo punto apparentemente banale, oltre che sulla tecnologia dell’informazione che, andando sopra i muri ed i fili spinati, si è diffusa per aria ed ha smentito agli occhi dei cittadini le falsificazioni indotte dai regimi. Non a caso la Cina, entrando nell’economia mondiale con le sue dirompenti condizioni di competitività, ha dovuto inventarsi una strana economia di mercato a direzione statale o meglio provinciale per mantenere equilibri di potere a livello territoriale.

D’altra parte l’Occidente e soprattutto l’Europa con una economia di mercato capitalistica, nonostante gli evidenti limiti ed ingiustizie create, ha prodotto la più poderosa crescita e la più equa distribuzione dei redditi della storia. L’Europa ha per di più realizzato e vissuto per oltre settanta anni un Welfare State che, anch’esso con i suoi difetti e limiti, garantisce tutti i cittadini di più e meglio di qualunque altro continente al mondo.

Ecco allora che la sfida per la supremazia nel mondo del XXI secolo non è solo economico-produttiva ma, soprattutto, è istituzionale e deve essere collocato sul piano del giusto equilibrio tra benessere economico e libertà degli individui. Abbiano toccato questa equazione con mano durante il lock-down per il Coronavirus. Ma se in futuro, epidemia o non, qualcuno imponesse un lock-down mentale?

Gli equilibri multipli di J.M. Keynes

Nella teoria economica dominante fino agli anni trenta del secolo scorso gli economisti neoclassici sostenevano che in una economia di mercato l’equilibrio possibile fosse soltanto uno perché, con tutti i mercati con concorrenza pura e senza poteri per ciascun operatore, il sistema economico si sarebbe sempre e da solo riportato all’equilibrio di piena occupazione. Pertanto la politica economica non aveva alcun ruolo e semmai doveva seguire regole ferree per non interferire con le leggi del mercato.

La politica di bilancio doveva essere in pareggio e la politica monetaria doveva adeguare l’offerta di moneta alla domanda secondo l’equazione di Fisher, poggiata su due assunzioni: il Pil reale era sempre quello di piena occupazione e la velocità di circolazione della moneta non era dovuta a comportamenti economici bensì a mere abitudini, consuetudini e tradizioni. Ecco perché, dopo il martedì nero di Wall Street nel 1929 seguì una lunga e profonda recessione causata ed ingigantita dagli errori della politica economica basata su quella falsa teoria corrente all’epoca.

Alla caduta dal Pil i governi, vedendo scendere le loro entrate e perseguendo il pareggio di bilancio, tagliarono le spese e quindi spinsero ad una ulteriore caduta del reddito avviando un prima spirale perversa. Le Bance centrali, vedendo cadere il Pil reale, pensando di dover evitare l’inflazione, tagliarono l’offerta di moneta rendendo quindi più strette le condizioni di credito, avviando così una seconda spirale perversa.

Ci volle la Teoria Generale di John Maynard Keynes per dimostrare che l’economia di mercato non ha come unico punto di equilibrio quello corrispondente alla piena occupazione, ma può avere equilibri “multipli”. Se cade la produzione, cade l’occupazione e quindi cade la domanda. Se cade la domanda cade la produzione e si avvia una spirale perversa verso il basso. Il problema è che se i mercati sono a concentrazione oligopolistica e non nella teorica concorrenza pura, alla caduta della produzione può seguire una caduta di domanda e può quindi determinarsi, a qualunque livello, un equilibrio con disoccupazione. Senza intervento pubblico l’economia non si muove da quel punto e la disoccupazione non rientra, né il sistema nel suo complesso sarà mai in grado di tornare alla piena occupazione.

Ebbene, questo è anche il rischio che corriamo in questa crisi che ci sta di fronte. Se nel corso della crisi si distrugge capacità produttiva (30-40% delle imprese che chiudono) e si aumenta la disoccupazione (la domanda non riprende) si può determinare un equilibrio con disoccupazione elevata. Certo ci sarà sempre qualcuno che sosterrà che quella è una disoccupazione frizionale o strutturale o una disoccupazione coerente con una inflazione sotto controllo.

Ma questo arrampicarsi sugli specchi delle definizioni astratte sulla natura della disoccupazione andrebbero spiegate alle decine e forse centinaia di milioni di persone che saranno senza reddito e senza speranza. Queste due premesse devono essere tenute presenti sia per ciò che riguarda l’economia mondiale, sia per le sorti dell’Unione europea, sia per le prospettive dell’economia italiana.

L’INDICE DEL SAGGIO

1. Il re è nudo… in Occidente
Il finto abito del re è stato tessuto con un peccato originale e cucito su tre paradossi

2. Cosa ha fatto l’Europa di fronte al coronavirus
E gli Stati Uniti d’Europa sono solo utopia?

3. Due premesse di teoria economica
3.1 – Equità e Crescita
3.2 – Gli equilibri multipli di J.M. Keynes

4. Cosa ha fatto l’Italia per quaranta anni… prima del coronavirus
Tolomeo o Copernico?

5. Cosa ha fatto l’Italia di fronte al coronavirus
E cosa deve fare per il 2020 e 2021

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