Per Milan Kundera (La lentezza, 1995) la velocità è indice di volgarità. Invece la lentezza, che è ponderazione, porta a scelte sagge, al successo dell’azione e alla conseguente gratificazione di colui o colei che agisce con calma. Italo Calvino, elogiando la rapidità (Sei lezioni americane, 1988), diversa dalla fretta (quest’ultima è nemica del buon raccontare), la intende come densità, ossia come arrivare al nocciolo senza divagare. E per spiegare la differenza tra rapidità e lentezza, Calvino racconta una leggenda cinese.
“Tra le molte virtù di Chan-Tzu c’era l’abilità nel disegno. Il re gli chiese il disegno di un granchio. Chang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era ancora cominciato. “Ho bisogno di altri cinque anni”, disse Chang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni Chang-Tzu prese il pennello e, in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto che si fosse mai visto”.
Il pennello e il gesto rapido di Chang-Tzu è la pistola estratta, dalla fondina, dal Biondo (Clint Eastwood), che fa fuoco rapidamente, in un “baleno”, dopo lunghi interminabili momenti di silenzio, di osservazione, di dettagli in campo/controcampo di occhi che si scrutano, si scavano, di attività pensante, di gesti lenti (Il buono, il brutto, il cattivo, 1966, Sergio Leone). E noi spettatori vediamo gli sfidanti colpiti e cadere a terra dal punto di vista della colt che sta facendo fuoco (è la scena in cui il Biondo uccide i cacciatori di taglie che hanno catturato Tuco). Chi mai prima di Sergio Leone aveva osato affidare a una pistola la “soggettiva”?
Ecco che la lentezza genera la rapidità di esecuzione, gesto di “un istante”: una rapidità figlia di un ponderato pensare, di attenta elaborazione, come si addice alla riflessione scientifica, al pensiero filosofico. Il festina lente personale modus operandi dell’imperatore Augusto, attribuitogli da Svetonio, è pienamente applicabile al cinema di Clint Eastwood, sia come attore leoniano prima (vedi, per cominciare, la “trilogia del dollaro”), che, poi, come regista innovativo.
Acquisita fama mondiale per trent’anni con il personaggio del duro, sia nel western (dalla ricordata trilogia leoniana anni Sessanta, agli Spietati, 1993, sua regia, con la svolta del duro-antieroe) che nel poliziesco (i film dedicati al terribile ispettore Callaghan), Eastwood rifonderà successivamente il suo personaggio. Ecco che il lento agire da cobra, pronto a colpire feralmente (il disincantato William Munny degli Spietati), si trasforma, negli anni Duemila, nella paziente lentezza ‘filosofica’ di un personaggio della terza età, chiamato dalla sua coscienza a soffermarsi sul senso della vita (Gran Torino, Million Dollar Baby, Il corriere-The mule).
Ci accorgiamo così che il cinema di Clint Eastwood regista (nato a San Francisco il 31 maggio 1930: auguri per i suoi novant’anni), non ha la fretta fracassona e pirotecnica del cinema ultra digitale hollywoodiano chiamato a stordire lo spettatore con nuovi effetti speciali a ogni cambio inquadratura. Anche in film dal montaggio compresso (Million Dollar Baby, 2004, Invictus, 2009, Sully, 2016) Eastwood apre improvvisamente a scene di una lentezza veloce: pensate agli infiniti e ripetitivi allenamenti di Maggie in Million Dollar Baby; alla finale di rugby tra Sud Africa e Nuova Zelanda in Invictus. La sua regia si può permettere, dunque, di essere velocemente lenta, sa creare la suspense come faceva il grande cinema hollywoodiano e ancor prima il maestro dei maestri, David Wark Griffith.
Il film-summa della filosofia del neo-racconto eastwoodiano è The mule (Il corriere, 2018). “Questo film è diverso da tutti gli altri da me diretti – commenta Eastwood – ho voluto raccontare una storia diversa, che viene da fatti veri. La solitudine di un uomo che ha sbagliato a vivere la vita, ma che cerca di correggersi prima di lasciare questo mondo”.
Infatti, il tema centrale, è quello “di non aver messo al primo posto la famiglia ma il lavoro – continua Eastwood – non bisogna commettere questo errore”. Ecco il messaggio di The mule. Il regista gli dedica la nota scena della colazione tra i due protagonisti, l’ispettore Colin Bates (Bradley Cooper) ed Earl (Clint Eastwood), il “delinquente”. Siamo al banco del bar del motel di terza categoria, è l’alba. Tutti e due hanno dormito poco e male. L’ispettore, deluso per non aver scovato il vero corriere della droga, sbagliando persona. Earl, che sa di esser ricercato, e mantiene la sua calma, la sua lentezza filosofica, nei ragionamenti come nei movimenti. I due stanno facendo colazione. Si osservano senza osservarsi. Poi Earl, lentamente, rompe il ghiaccio. Si congratula con l’ispettore per aver bloccato, la notte prima, la reazione aggressiva e violenta di un corpulento ospite dell’hotel, presunto corriere della droga, messo alle strette dalle provocazioni dello stesso ispettore. Questi ringrazia ma si vede che è deluso dal fallimento dell’operazione. Gli avevano segnalato per certo che il corriere fosse in quel motel. Non sospetta che quel nonnino, dall’aria innocente di fronte a lui, ex floricoltore, ora disoccupato, è il corriere ricercato. Silenzio. L’ispettore controlla il cellulare, e si fa scappare una interiezione di rammarico. Earl si inserisce di nuovo. “Conosco questa espressione, è quando ci siamo scordati di un anniversario di qualcuno che conta”. Bates non può far a meno di rispondere. Inizia la breve, scarnificata, conversazione. Forse uno dei miglior esempi di cinema dialogato degli ultimi vent’anni.
Qui Eastwood regista ricorre alla suspense alla Alfred Hitchcock: lo spettatore sa più di chi conduce le indagini. Il “delinquente” parla all’ispettore come un sacerdote laico, e al contempo come penitente: si confessa. (Quella confessione che il protagonista, sempre Eastwood, di Gran Torino, aveva negato al prete cattolico, dalla “faccia da ragazzino”). “Io – continua Earl, dopo una pausa – sono il re degli auguri mancati verso tutti. Verso mia moglie, verso mia figlia. (Pausa) Non faccia questo errore. Non metta mai il lavoro avanti alla famiglia”. Bates è affascinato dalle osservazioni del nonnino. La conversazione pacata, intessuta di silenzi, ma altamente filosofica, prosegue. Sino alla battuta, di forte riconoscenza verso Earl, di Bates: “La sua età le consente di non avere più filtri”. Ossia, lei vede la realtà come è. Che è una affermazione di una notevole profondità filosofica.
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Il film ci precipita così, delicatamente, con una lentezza accelerata, nella riflessione. Lo spettatore è catturato dall’eloquio pausato di Earl abito linguistico di un pensiero ordinato. I “pensieri” di Earl ci dicono del rispetto dell’altro; del dedicarsi al tu; della ricerca del necessario dialogo, unico ossigeno della congregazione umana; del ricucire con la propria famiglia. Eastwood e il suo sceneggiatore Nick Schenk sembrano alludere alla “filosofia del dialogo” sviluppatasi come reazione prima alla Grande Guerra e poi ai massacri della Seconda Guerra Mondiale. Non sarebbe fuorviante leggere The mule, perfetto racconto esistenzialista, attraverso il prisma colorato delle opere di Martin Büber, Jacques Maritain, Emmanuel Mounier, Edith Stein, Emmanuel Lévinas sino a Karol Wojtyla e Paul Ricœr.
The mule è anche la summa dell’evoluzione linguistica di Eastwood regista, iniziata con Gran Torino. Un film in cui i “protagonisti” linguistici sono i dettagli e la sapienza del metterli uno dopo l’altro, al posto giusto: ossia il montaggio. Ebbene, questo non è altro che l’estetica del cinema di Sergio Leone (“estetica del dettaglio” sottolineata dalla attenta lectio di Carlo Verdone dedicata al maestro italiano, in rete). Il corriere è un pausato alternarsi inarrestabile di accostamenti di dettagli: il placido viaggiare in auto per chilometri e chilometri scandito dai primi piani di Earl, le banconote in busta, i fiori, i cellulari, gli abiti, i cappelli, la villa e il party dal capo-cartello messicano (il male), la nuova festa country dei reduci grazie ai soldi di Earl (l’innocenza della terza età).
Come chiude l’imperdibile The mule (Il corriere)? Con una prigione in campo medio, ripresa dall’alto, in piano leggermente inclinato verso il basso. La “Casa della Rieducazione”, come la chiamerebbe D.W. Griffith, è, ovviamente, circondata da barriere di muri, sbarramenti di recinzioni sormontate da luccicanti enormi gomitoli di filo spinato. I ristretti lavorano all’aperto. È una giornata di sole. Di silenziosa gioia. Di muta speranza. Di vita. Earl, il floricoltore, coltiva i suoi amati fiori, le stupende emerocallidi ibridate, musica di colori. Quelle che al mattino rapidamente sbocciano, lentamente seguono il percorso del sole sulla volta celeste per tutta la giornata, e poi, la sera, rapidamente muoiono. Quanto la nostra vita somiglia alle emerocallidi.
(Foto Umberto Pizzi – Riproduzione riservata)