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Scelta fra Usa e Cina, la non opzione dell’Europa. Il commento di Clini

È stato dato molto risalto, anche da Formiche.net, al recente intervento su Welt di Mathias Döpfner, amministratore delegato di Axel Springer e presidente della federazione tedesca della stampa: Europe must decide between the us and China. Alcune considerazioni nel merito

EUROPA, USA E LE SFIDE GLOBALI

L’articolo, brillante e pungente, fa tuttavia riferimento ad una scelta che non è mai stata all’ordine del giorno dell’Europa. Da questo punto di vista è un capolavoro di fake news.

Infatti, non mi pare che nessuno Stato membro né la Commissione Europea abbiano mai messo in discussione l’adesione ai valori ed alla irrinunciabile tutela delle libertà personali ed economiche che sono alla base della alleanza, della solidarietà e della forte integrazione  tra Europa e Stati Uniti.

Certamente i rapporti tra Usa ed Europa hanno avuto nel corso dei decenni un’evoluzione dialettica molto articolata e spesso complicata su alcuni importanti dossier, perché l’Europa  ha maturato e costruito nel tempo visioni e politiche globali diverse da quelle americane: ricordo, per tutti, il lungo confronto sui cambiamenti climatici passato in oltre 30 anni tra convergenze (molto temporanee) e conflitti spesso duri come quelli recenti  con l’amministrazione Trump.

Da una parte, in alcune fasi di questo confronto l’Europa – troppo concentrata sulla sua immagine “verde” e molto autoreferenziata –  ha sbagliato a non “percepire” in modo aperto e costruttivo  le priorità Usa sulla sicurezza energetica nazionale, ed ha in questo modo determinato il fallimento del Protocollo di Kyoto. Ricordo che ho sempre cercato di contrastare questa attitudine europea. Nel pieno del conflitto tra Usa e Europa nel 2002 fui il promotore dell’accordo sui cambiamenti climatici sottoscritto da George W.Bush e da Silvio Berlusconi, e da ministro mi meritai l’articolo sull’Espresso “Clini l’americano”.

Dall’altra parte l’amministrazione Trump ha utilizzato le debolezze e le contraddizioni dell’accordo di Parigi per disimpegnare gli Usa e di fatto paralizzare il processo verso la definizione di misure globali in grado di ridurre i rischi dei cambiamenti climatici, che continuano ad essere messi in grande evidenza dalla Agenzia Governativa degli Usa per l’atmosfera e gli oceani (Noaa).

L’uscita degli Usa dall’accordo di Parigi è il simbolo più forte della opposizione Usa al multilateralismo, ma è anche un segnale di conflitto con l’Europa e con il rafforzamento dell’identità europea come player globale e catalizzatore dei necessari processi multilaterali per affrontare le sfide globali.

Sfide globali che sono state richiamate in modo puntuale e con dovizia di dati – nel pieno dell’emergenza Covid-19 – dal Rapporto appena pubblicato da Oxford Review of Economic Policy “Will Covid-19 fiscal recovery packages accelerate or retard progress on climate change?”.

Il Rapporto, coordinato dal premio Nobel Joseph Stiglitz e da Dimitri Zenghelis, con il contributo di professori universitari, alti funzionari delle banche centrali e dei ministeri delle finanze dei paesi G20, mette in evidenza che le misure per la ripresa dell’economia dovranno dare priorità alla riduzione delle emissioni globali di carbonio, altrimenti è “altissimo il rischio che il mondo salti dalla padella Covid alla brace del cambiamento climatico”, con la perdita di decine di milioni di vite umane.

In altri termini  il Rapporto conferma la giusta impostazione europea, che da un lato ha disegnato la sua politica economica nella direzione della “decarbonizzazione”  fino al Green Deal approvato dal Parlamento Europeo lo scorso gennaio, e dall’altro ha promosso la cooperazione con le grandi economie del pianeta dalle quali dipende il futuro del clima.

In questo quadro si colloca la partnership Eu-Cina per lo sviluppo coordinato di tecnologie e politiche sui cambiamenti climatici, per la promozione delle fonti rinnovabili e dell’economia circolare. Avviata nel 2005, la partnership è diventata una infrastruttura di dialogo e cooperazione che ha anche favorito lo sviluppo di programmi bilaterali con molti Stati Membri,  tra i quali Italia, Germania, Francia, Regno Unito, Spagna, Finlandia, Danimarca.

Nell’ambito di queste partnership sono state sviluppate sempre più intense e ampie collaborazioni tra Università, mentre molte imprese europee hanno realizzato programmi e insediato stabilmente attività industriali.

Diversa evoluzione ha avuto invece la partnership  Eu-Us, “High Level Dialogue on Climate Change, Clean Energy and Sustainable Development”. Avviata nel 2006 , la partnership si è di fatto interrotta nel 2009, per lo scarso interesse dell’Amministrazione Usa. Più proficui e continuativi sono stati i programmi di cooperazione scientifica tra Università europee e Usa, con il coinvolgimento di Centri di Ricerca e Agenzie Nazionali. Anche se, come è stato rilevato recentemente dal Lamont-Doherty Earth Observatory della Columbia University , oggi negli Usa le ricerche sul clima devono essere  classificate come ricerche sulla qualità dell’aria, e questo rende l’idea della difficoltà della cooperazione Eu-Us sui cambiamenti climatici.

Per informazione, altre partnership sono in corso con  il Brasile (dal 2007), con l’India dal 2016 l’Unione Africana, con l’India dal 2006 anche sotto l’impulso della International Solar Alliance promossa da India e Francia nel 2015, con l’African Union dal 2017.

Tenendo conto delle politiche “interne“ dell’Europa con il Green Deal, e delle partnership internazionali, è evidente la diversità di visione e di approccio con le recenti politiche Usa.

Ma questo non vuol dire che l’Europa deve scegliere tra Usa e Cina, ma al contrario l’Europa deve insistere per convincere e coinvolgere gli Usa nella cooperazione globale per la decarbonizzazione e contrastare  i cambiamenti climatici che non lasciano margini alla illusione di soluzioni nazionali.

E l’emergenza Covid-19 è l’occasione per ripensare in modo critico ed innovativo alle strategie di cooperazione per affrontare e gestire le sfide globali. Su questo è urgente l’impegno dell’Europa verso gli Usa.

IL DECOUPLING

Mathias Dopfner suggerisce uno “strict decoupling”, ovvero la separazione dell’economia europea da quella cinese con la prospettiva di  una maggiore dipendenza dall’economia Usa.

A parte ogni considerazione in merito ai grandi vantaggi che le industrie della Germania hanno ricavato dall’integrazione dei cicli produttivi con i loro stabilimenti in Cina, alla base del decoupling c’è il tentativo di “sterilizzare” l’innovazione tecnologica della Cina che ha fatto passi da gigante.

5G è certamente l’innovazione più rilevante e a maggiore impatto, ma basta ricordare che cosa è stato fatto nei due mesi dell’emergenza Covid-19 per rendersi conto dei livelli raggiunti e dalla rapidità di realizzazione delle innovazioni.

Come ha ricordato Biagio Simonetta sul Sole 24 Ore, Covid-19 ha accelerato lo sviluppo in Cina di sistemi e tecnologie innovative per l’utilizzazione dei Big data.

In due mesi sono state messe a punto applicazioni avanzate per mappare i movimenti del virus e monitorare i pazienti infetti: “Alipay Health Code” è stata sviluppata da Alibaba e assegna ad ogni persona un colore in relazione al contagio ed alla malattia, mentre “Close Contact Detector” su WeChat – sviluppata da Tencent – allerta sulla vicinanza di portatori del virus.

Queste app hanno certamente accresciuto il livello di “controllo sociale” e ridotto i margini della privacy, ma hanno anche avuto l’effetto di rendere pubbliche e aggiornate le informazioni sulla diffusione dell’epidemia in Cina.

E poi ancora il controllo della temperatura “contactless” realizzato da Sense Time, o l’applicazione dell’intelligenza artificiale a un sistema Tac  – realizzato da Alibaba – che consente la diagnosi di Covid in 20 secondi senza tamponi.

Invece del “decoupling” l’Europa dovrebbe rafforzare il negoziato con la Cina per rafforzare la cooperazione tecnologica nelle due direzioni e rendere maggiormente accessibile alle imprese europee la  partecipazione ai progetti delle imprese cinesi. E sarebbe auspicabile un approccio analogo da parte degli Usa.

Non è certamente un’operazione semplice, ma questa è la strada per evitare i conflitti e gestire in modo efficace le sfide globali che coinvolgono tutti senza confini, come ci insegna Covid-19 : e ricordando il Rapporto Stiglitz, Covid potrebbe essere solo un “assaggio” rispetto a quello che sta avvenendo e che  ci aspettiamo dal cambiamento climatico.

COVID È STATO DELIBERATAMENTE COSTRUITO IN LABORATORIO E LA CINA HA NASCOSTO LA VERITÀ

Mathias Döpfner non affronta direttamente il tema della pandemia, ma fa riferimento alle dichiarazioni di esperti del Robert Koch Institute in merito al lungo silenzio della Cina sulla natura del virus.

A questo proposito due considerazioni

Gran parte della comunità scientifica non condivide la tesi della costruzione del virus in laboratorio.

Per tutti faccio riferimento a quanto ha dichiarato Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases e (sembra ancora oggi) consigliere del presidente Trump, a National Geographic il 4 maggio 2020 : “If you look at the evolution of the virus in bats and what’s out there now, (the evidence) is very, very strongly leading toward this could not have been artificially or deliberately manipulated. Everything about the stepwise evolution over time strongly indicates that (this virus) evolved in nature and then jumped species”.

Se guardiamo all’evoluzione del virus nei pipistrelli e al punto a cui siamo arrivati ora, (l’evidenza) suggerisce in modo molto forte che il virus non avrebbe potuto essere creato o manipolato artificialmente. Tutto quello che sappiamo sull’evoluzione graduale nel tempo indica fortemente che (questo virus) si è evoluto in natura e poi ha saltato la specie.

Le incertezze e i ritardi nella gestione della prima fase dell’epidemia a Whuan  sono stati messi in grande evidenza da molti Paesi e dalla stampa internazionale.

Non dobbiamo però dimenticare  che  i ritardi e gli errori sono stati riconosciuti pubblicamente dal governo centrale cinese già a gennaio 2020.

I dirigenti di Whuan sono stati considerati responsabili dei ritardi e degli errori, e sono stati sostituiti.

Li Wenliang, l’oculista 34enne  che aveva lanciato l’allarme nel dicembre 2019 ed era stato fermato dalla polizia locale il 3 gennaio, è stato riabilitato prima della sua morte, avvenuta il 7 febbraio.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità è stata informata il 3 gennaio 2020 mentre il 10 gennaio 2020 la sequenza genetica di Covid-19 è stata depositata su GenBank (accession MN908947)  e resa accessibile a tutti, ovvero a tutta la comunità scientifica internazionale di virologi ed epidemiologi.

Il 23 gennaio 2020 il governo centrale ha imposto il lockdown di Whuan e dell’intera provincia di Hubei, con una decisione resa nota all’opinione pubblica mondiale.

Forse dovremmo chiederci come mai l’Organizzazione Mondiale della Sanità , e di seguito  l’Italia, i Paesi europei, e poi gli Usa siano rimasti a guardare l’evoluzione in Cina invece di agire tempestivamente, a partire dalla messa a punto di protocolli comuni e globali per la prevenzione, la diagnosi e la terapia.

È probabile che tutti abbiano pensato che, come nel caso di Sars, l’emergenza sarebbe rimasta circoscritta alla Cina.

Ora non è il momento di cercare colpevoli, ma di imparare da questa drammatica esperienza che le emergenze globali vanno riconosciute e gestite globalmente.

HENRY KISSINGER

Mathias  Döpfner ha citato Henry Kissinger in conclusione del suo intervento.

Lo faccio anch’io, riprendendo una frase dal  libro “On China”, pubblicato nel 2011.

“Sono convinto che in assenza di buoni rapporti tra Cina e Stati Uniti, la civiltà, così come l’abbiamo conosciuta fino ad ora, sia in pericolo. Abbiamo nei confronti delle nostre società l’obbligo di compiere seriamente ogni sforzo possibile per stabilire una relazione armoniosa tra i due Paesi, e non potremo raggiungere questo obiettivo senza una visione condivisa dei problemi e del modo di affrontarli nel loro insieme”.


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