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Gantz-Netanyahu. La benedizione di Pompeo, che guarda a Iran e Cina

Perché il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha viaggiato per sedici ore (andata-ritorno) per una visita lampo di otto ore in Israele mercoledì? Cosa c’era di così importante che ha fatto spostare il capo della diplomazia americana a Gerusalemme nel mezzo di una pandemia? La strategia. Gli Stati Uniti hanno voluto portare di persona un saluto al nuovo governo israeliano – che si sarebbe dovuto formare oggi, giovedì 14 maggio (tra l’altro il 72esimo anniversario delle nascita dello stato di Israele e secondo dello spostamento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme), ma slitterà con ogni probabilità a domenica per via di discussioni interne al Likud, uno dei due partiti che dovrebbe costituire l’alleanza di governo.

Pompeo ha avuto incontri alla Knesset, e poi quelli personali con la coppia esecutiva che guiderà lo stato ebraico, l’ex-n(u)ovo premier e leader del Likud, Benjamin Netanyahu, e quello che teoricamente era il suo rivale, Benny Gantz, leader di un partito (Blue e Bianco) formato inizialmente per sottrarre consenso e spazio politico a Bibi e poi finitoci a governare insieme.

Israele (ed è anche in questo caso la strategia nazionale che ha mosso tutto) ha costruito un governo in mezzo alla crisi epidemica, che è contemporaneamente un passaggio delicato per dinamiche geopolitiche che coinvolgono lo stato ebraico. Aspetti su cui Washington non vuole perdere il contatto, l’amicizia, la collaborazione. La tempistica legata alla formazione del governo è solo un elemento preliminare, sebbene da non sottovalutare. Sul tavolo c’è la possibilità che Israele proceda con l’annessione di circa il 30 per cento degli insediamenti nel West Bank, aspetto su cui l’amministrazione Trump non ha mostrato troppo opposizione se non fosse per le recenti pressioni ricevute da svariati leader arabi.

La questione è interna al Paese, ma ha risvolti esterni ed è per questo che – secondo alcuni media americani – Pompeo avrebbe chiesto di “non andare troppo velocemente” (citazione dal New York Times) ai due leader israeliani, che tra l’altro sull’argomento non hanno un’agenda identica. A una domanda sulle annessioni, Pompeo ha raccontato all’Israel Hayom (giornale spostato su Netanyahu) di aver chiesto ai due – che secondo l’accordo raggiunto si intercambieranno nel tempo alla guida politica dello stato ebraico – di “considerare tutti i fattori” perché “ci sono varie questioni collegate”.

Lo stesso dipartimento di Stato ha detto però che il tema è stato secondario, e che l’incontro ha principalmente ruotato attorno a elementi strategici. Come l’Iran e la Cina. Non è un caso se, tra gli incontri del segretario americano, particolare rilievo è stato dato a quello col direttore del Mossad, Yossi Cohen. Partendo dall’Iran, il tema è ampio. Israele vede nella Repubblica islamica un nemico esistenziale, e trova sponda nell’alleanza americana – l’amministrazione Trump è stata la più dura tra quelle che recentemente s’è trovata davanti Teheran. Come da molti anni a questa parte, la Siria è ancora un punto delicato.

Gli israeliani stanno procedendo con la loro politica, ossia colpire i trasferimenti di armi che l’Iran favorisce ai gruppi sciiti che ha mobilitato in Siria – su tutti, Hezbollah. Israele vuole tenere il conflitto distante dai confini e non vuole soffrirne spin-off. Contemporaneamente in questi giorni è attivo un barrage mediatico dai media israeliani che attingono a fonti del comparto sicurezza che segnalano come i russi stiano sviluppando grossa insofferenza nei confronti del regime assadista (vero, ma… spiegano tre think tank internazionali che hanno posto attenzione su questa fase di scontro informativo) e e su quanto Mosca stia sviluppando un sentimento simile nei confronti degli iraniani (tema ricorrente fin dai primi anni della campagna russa in Siria).

Nel rapporto con gli Usa, questi sono temi interessanti perché riguardano anche il rapporto di Israele con la Russia – che ha sempre lasciato spazio all’azione punitrice contro l’Iran e sempre considerato Gerusalemme l’alleato principale. Un rapporto che Washington concede e monitora, esattamente come quello con la Cina. I grandi investimenti cinesi in infrastrutture strategiche israeliane come il porto di Haifa o nei pressi della base militare di Palmachim, hanno da diverso tempo attirato l’attenzione del comparto national security dell’amministrazione Trump. Ma ora l’argomento è un altro: Pompeo si fa portavoce della volontà americana di portare dentro Israele nella strategia anti-Cina creata attorno al coronavirus.

La scorsa settimana, il segretario ha dichiarato chiaramente che la Cina “avrebbe potuto prevenire la morte di centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo” e “risparmiare la discesa del mondo nel malessere economico globale”, se solo avesse avuto un comportamento più trasparente nelle fasi iniziali dell’epidemia. E ha aggiunto che Pechino “sta ancora rifiutando di condividere le informazioni di cui abbiamo bisogno per proteggere le persone”. Mercoledì, in conferenza stampa, Pompeo rivolgendosi a Netanyahu ha detto: “Sei un ottimo partner. Condividi le informazioni, a differenza di altri Paesi che cercano di offuscare e nascondere le informazioni “.

Avere Israele nel gruppo di coloro che chiedono a Pechino di prendersi responsabilità sulla diffusione dell’epidemia sarebbe per gli Stati Uniti un elemento importante. Gli israeliani sono stati un modello internazionale per come hanno contenuto l’epidemia e rappresentano il Paese più avanti verso il raggiungimento dell’arma strategica, il vaccino.

(Foto: Twitter, @SecPompeo)

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