Vediamo come sono oscillati davvero i prezzi del barile nelle ultime settimane: ad aprile, infatti, il benchmark europeo e asiatico Brent, in parallelo con quello Usa Wti, (West Texas Intermediate) sono diminuiti di circa 1 Usd a barile per giorno.
Il Wti è, comunque, una miscela di diversi petroli greggi americani leggeri e dolci; e viene raffinato soprattutto nel Midwest e sulla costa del Golfo.
Il benchmark detto Brent, invece, viene estratto nel Mare del Nord, ha maggiore e più rapido accesso ai grandi mercati ed è usato, quindi, come benchmark comune per il più vasto mercato petrolifero, mentre il Wti vale oggi, soprattutto, come riferimento per il mercato americano.
Si noti, peraltro, che il mese precedente, marzo, i due benchmark erano crollati rispettivamente di 26,5 Usd/barile e di 24 Usd/barile.
Insomma, lo squilibrio del mercato petrolifero è arrivato in pieno soprattutto sui prezzi future di marzo, mentre le oscillazioni di aprile sono derivate soprattutto dalla definizione dell’accordo Opec plus plus del 2 aprile, definito a 26,03 Usd/barile.
La rottura delle trattative tra sauditi e russi ha generato una superproduzione saudita, prima di 10 milioni di b/g, poi subito di 12 milioni, con una successiva scelta da parte dell’Opec di definire una “caduta” del prezzo del barile a 60 Usd, vista la crisi da pandemia Covid-19.
Un errore, ma probabilmente una previsione troppo classicamente macroeconomica, che non accoglie valutazioni strategiche e di concorrenza interna all’Opec, spesso essenziali per fare i prezzi.
Poi, il barile è aumentato subito fino a 34,44 Usd/barile il 9 dello stesso mese, per poi arrivare fino addirittura ai 16,04 Usd/b. il 22 aprile, per poi infine chiudere a 25,04 Usd/b.
Il Wti ha aperto alla metà di aprile a 20,48 Usd/b., per poi arrivare a ai 28,26 Usd/b. e infine chiudere a 19, 29 Usd/b. dopo peraltro essere arrivato al prezzo, negativo e paradossale, di un -37,63 Usd/b., raggiunto il 20 aprile 2020.
Il 14 dello stesso mese, peraltro, il Fondo Monetario Internazionale aveva pubblicato una previsione dalla quale si deduceva che il PIL mondiale si sarebbe ridotto del 3% nel periodo rimanente del 2020, mentre il 15 dello stesso mese la International Energy Agency divulga una sua analisi, nella quale si prevede che la domanda di petrolio si contrarrà, a tutto il 2020, di 9.300.000 barili/giorno.
Da ciò deriva logicamente che il Wti future, con consegna a maggio, sia immediatamente crollato al minimo dei -37,63 Usd/barile, ma qui il problema vero è lo stoccaggio. I contratti a breve non lo contemplano affatto.
È stato proprio questo, in effetti, come dicono molti analisti del settore, a far scendere i prezzi. Non a caso, infatti, le scorte commerciali petrolifere Usa si sono accresciute di molto, dai 469.193.000 barili del 27 marzo scorso ai 527.631.000 barili il 24 maggio, è quindi probabile che il U.S. Etf Oil Fund, crollato del 15% nella sola sessione del 27 aprile dopo aver annunciato grandi trasformazioni nella composizione del suo portafoglio, sia caduto per l’eccesso di stoccaggio imprevisto. Ovvero, il Fondo statunitense ha dichiarato di volersi togliere dal portafoglio tutti i contratti Wti con scadenza a giugno, e di sostituirli con contratti a più lungo termine. Con evidenti perdite immediate.
Quindi, il Fondo petrolifero Usa avrà, per il 30% del portafoglio, contratti Wti con scadenza a luglio, per il 15% dei Wti con scadenza a agosto, poi sempre con scadenze al mese successivo, fino al 10% rimanente con scadenza a giugno 2021.
Le perdite del Fondo Usa sono, ormai, del -87% dall’inizio di quest’anno. E il Fondo Usa ha un valore stimato di 3 miliardi di usd. Un fenomeno finanziario che lo ha accomunato ad altri Fondi specializzati nei future petroliferi.
È evidente che questo comportamento abbia contribuito alla linea ribassista degli ultimi mesi, e questo non ha certo favorito la campagna elettorale di Donald J. Trump. Peraltro, il ribasso del Wti si spiega anche con le carenze logistiche strutturali che caratterizzano il sistema di trasporti petroliferi interni agli Usa.
Ma l’Opec prevede, sulla base delle idee dell’attuale presidente di turno algerino, che il prezzo del barile sarà a 40 Usd all’inizio del terzo trimestre del 2020; e che comunque il mercato dei petroli tornerà in equilibrio prima della fine di quest’anno. Una speranza molto improbabile. E, comunque, il 1° maggio 2020 il nuovo accordo Opec plus plus è entrato in vigore.
La prima fase dell’intesa, siglata il 12 aprile ultimo scorso, prevedeva che tutti i membri Opec più gli altri riducessero la produzione di 9.700.000 barili/giorno sino al 30 giugno del 2020.
Ai primi di maggio, la Federazione Russa e l’Arabia Saudita hanno portato le rispettive produzioni a 8.750.000 barili/giorno (con una diminuzione di 2 milioni di barili/giorno) con l’idea ulteriore di portare il loro output al limite di 8.500.000 b/g.
La prima fase dell’accordo bilaterale del 12 aprile prevedeva, inoltre, che i produttori che non facciano direttamente parte dell’Opec tagliassero “volontariamente” la produzione di almeno 5.000.000; e per lo stesso lasso di tempo.
Tra questi produttori non-Opec di rilievo, ci sono, lo ricordiamo, la Norvegia, il Canada, il Brasile e, ovviamente, gli Usa.
Ma i tagli totali del fuori-Opec hanno raggiunto, con qualche difficoltà, appena i 4.100.000 barili/giorno. Anzi, in base ai calcoli di Standard&Poor, gli Usa hanno diminuito la produzione di ben 11.600.000 b/g, e solo per la settimana finita il giorno 8 maggio.
Un calo, quindi, di 1,5 milioni di barili/giorno, rispetto al livello dei 13.100.000 raggiunto il 13 marzo 2020.
La produzione Usa è quindi scesa, per la prima volta dal febbraio 2019, sotto i 12.000.000 b/g.
Peraltro, il 30 aprile 2020, le riserve strategiche petrolifere Usa hanno raggiunto i 636 milioni di barili, rispetto a una capacità massima totale di 714 milioni di barili.
Ma, secondo l’Oxford Institute for Energy Stuudies, la domanda globale di petrolio si contrarrà di ben 11.400.000 barili/giorno nell’intero 2020, per poi aumentare leggermente di 10.600.000 b/g nel 2021.
Ma oggi il tasso di disoccupazione, pur con tutti i trucchi statistici possibili, ha raggiunto il 14, 7% negli Usa. E sta aumentando rapidamente.
Il che porta a una caduta del 30% circa dei consumi petroliferi statunitensi ma, per quel che riguarda la Federazione Russa, essa mostra un Pil in caduta del 4-6%, fino almeno alla fine del 2020.
Il 24 aprile la banca centrale russa ha poi tagliato i tassi di 50 punti base, arrivando al 5,5%, mentre il tasso di inflazione russo è previsto in crescita del 4,8% fino alla fine di quest’anno.
La Cina, invece, mostra un indice composito (manifattura+servizi) che è aumentato, il dato è del 30 aprile U.s., da 53 a 53,4, mentre l’indice dei soli servizi è cresciuto da 52,3 a 53,2.
Ma l’indice degli acquisti cinesi del solo manifatturiero è diminuito di due punti, mentre, ancora, l’indice Caxin, che misura le Pmi private cinesi, indica una piccola recessione.
Le importazioni cinesi di petrolio in aprile, infatti, trainate dalle sole imprese pubbliche, sono aumentate del 4,5% anno su anno.
Le importazioni cinesi dall’Arabia Saudita sono però diminuite di 90.000 barili/giorno, ma gli acquisti cinesi di petrolio iraniano, malgrado le sanzioni Usa, sono aumentati, ovviamente solo verso la Cina, dell’11,3% rispetto all’anno precedente. Quindi, siamo a una nuova distribuzione delle aree di controllo geopolitico e petrolifero.
Per Pechino, l’alternativa è quella tra Iran, cuore della nuova Via della Seta, e il Venezuela, anche se sia Mosca che Pechino si sono accordati per fare avere alla Russia un ruolo primario a Caracas.
Quindi, i giochi geopolitici globali sono rimandati al ritorno di una robusta domanda di petrolio dopo la crisi da Covid-19, che cesserà solo con un vaccino o con una terapia universalmente accettata ma, sul piano geopolitico, riguarderà probabilmente un nuovo accordo tra Cina, Usa, Federazione Russa. Un accordo che potrebbe vedere, tra Eni e tecnostrutture governative e private, un ruolo di mediatore, stavolta vero e non fittizio, dell’Italia.
Nel paniere tra Usa, Cina e Russia entrano oggi molte questioni: la pretesa penetrazione di Mosca nelle macchine elettorali e politiche nordamericane, la trattativa commerciale tra Washington e Pechino che, guarda caso, si è inasprita proprio durante la crisi dei prezzi petroliferi, infine c’è il problema del contrasto infra-Usa riguardo alla riduzione della produzione petrolifera locale.
Se ci sarà un ritorno di fiamma, è proprio il caso di dirlo, del mercato del petrolio, la domanda dovrebbe arrivare a 90-95 mb/giorno, ma il paese con la maggiore perdita di produzione saranno sicuramente gli Usa, che hanno il maggior costo di produzione del barile.
La Federal Reserve, intanto, ha previsto, nel suo programma di aiuti anti-coronavirus del 30 aprile scorso, un sostegno diretto alle imprese Usa dell’oil&gas.
Ma molte delle aziende dello shale, che vive solo di prezzi alti, sarebbero, come dicono molti analisti del mercato petrolifero Usa, comunque fallite entro la fine del 2020.
Sul piano delle valutazioni globali, comunque, la domanda mondiale di petrolio è stimata in calo di 19.000.000 b/g nel corso di questo trimestre 2020 e di 8.600.000 b/g per tutto il 2021. L’offerta globale di petroli dovrebbe diminuire di 12.000.000 b/g da maggio a 88.000.000 l’anno prossimo.
Le scorte dell’Ocse sono aumentate di 68.200.000 b/g, per un totale di 2.961.000.000, ben 46.000.000 b/g oltre la media degli ultimi cinque anni, una quantità che vale 90 giorni di domanda media. La produzione di greggio non-convenzionale Usa diminuisce, comunque, di 183.000. b/g. con un picco fino al 13 marzo, per poi crollare di circa 12.000.000 b/g l’8 maggio. Le trivelle attive negli Usa sono oggi 374, di cui 292 petrolifere e 80 gasiere, più 2 miste. Sono 228 in meno rispetto a quelle rilevate il 9 aprile 2020, il minimo dal 1940.
Insomma, la pandemia da Covid-19 sta ridisegnando tutti gli scenari geopolitici, attraverso il petrolio, soprattutto, ma non solamente l’energia qui conta, quanto l’intero sistema economico che è, comunque, ancora oggi oil-dependent.
In ambito G20 si sono già verificate proposte di collaborazione internazionale, per condonare il debito ad alcuni dei Paesi più poveri e per una reazione coordinata contro la pandemia da parte dei Paesi più tecnologicamente evoluti.
Ogni trasformazione radicale dei sistemi energetici prefigura quindi un cambio di paradigma sul piano geopolitico. Secondo il Fondo Monetario, nessun Paese produttore di petrolio ce le fa a guadagnare con il barile a 40 Usd, solo il Qatar ci riesce appena, ma ogni Paese del Medio Oriente ha bisogno di prezzi ad almeno 60 Usd/barile. Ma oltre il break-even point, fiscale o produttivo, c’è altro: la diversificazione economica dei Paesi produttori è essenziale.
Da questo punto di vista, potrebbero sopravvivere solo il Messico, la Federazione Russa e gli Emirati Arabi Uniti, mentre alcuni altri, con economia meno differenziata, possono ancora chiedere prestiti o bloccare temporaneamente la spesa pubblica.
Ma ciò dipende non solo da valutazioni macroeconomiche, soprattutto invece da questioni politiche e strutturali: la presenza di manodopera straniera che si può mandar via facilmente (Arabia Saudita) oppure la possibilità di utilizzare altre forme di energia (Marocco) o ancora il carico negativo, sul prezzo del petrolio, di un qualche vecchio Welfare State (Algeria).
Altri Paesi sono, invece, altamente vulnerabili: l’Iraq, che è peraltro uno dei principali fornitori dell’Italia, attualmente, l’Oman, l’Algeria, la Nigeria, l’Ecuador, l’Angola, il Suriname, per non parlare dell’Iran e del Venezuela, dove la questione petrolifera si inserisce in una grave crisi politica internazionale, tutti questi Paesi possono, tra breve, o fallire oppure muoversi in una situazione indefinita di crisi, con stipendi non pagati del settore pubblico, servizi primari largamente decurtati, crisi militari, forte instabilità politica.
Ciò può portare, in qualche caso, all’espansione del “terrorismo”, ovvero e più esattamente del jihad “della spada”, che può collocarsi dentro i poli di crisi e governare gli Stati o le aree lasciate vuote dai vecchi governi legittimi, oppure all’espansione incontrollata della grande criminalità internazionale, che può trasformare gli Stati falliti in basi, sia per attaccare le economie, ancora relativamente sane, di parte dell’Occidente, sia per collegare le aree di illegalità tra di loro e trasformare quindi i territori criminali in un nuovo grande attore geopolitico.
Una ulteriore possibilità, da non escludere affatto, riguarda l’aumento delle tensioni regionali, che potrebbe diventare una opzione non del tutto irrazionale, almeno per alcuni Paesi produttori. Si pensi qui alla crisi dei prezzi al barile che innesca uno showdown finale tra Iran e sauditi.
Ci saranno anche Paesi asiatici o africani che ci guadagneranno, dalla caduta verticale dei prezzi. Ma il 20 aprile scorso, il contratto con scadenza a maggio per il West Texas Crude è arrivato, lo ricordiamo, a -40,32 Usd.
Pensiamo qui, tra coloro che ci guadagneranno un po’, all’Argentina, già in preda oggi all’ennesimo default, ma che pagherà comunque molto meno le importazioni energetiche, poi le Filippine, l’India, la Turchia, il Sudafrica.
Questi Paesi non saranno più piombati dal costo delle importazioni petrolifere, ma avranno anche minori investimenti da parte dei Paesi produttori, la cui disponibilità di capitali crollerà rapidamente.
Precedentemente, i prezzi petroliferi erano caduti grazie all’espansione del mercato dello shale in Usa, alla minore crescita globale e al lento, ma stabile, passaggio verso le energie rinnovabili in gran parte dei Paesi consumatori.
Poi è arrivata la pandemia da Covid-19, che ha accelerato tutti questi fattori e ha, di fatto, bloccato l’economia e, di contro, saturato i magazzini petroliferi. L’economia mondiale non si “riprenderà” presto o, più esattamente, non sarà più come quella di prima della pandemia. Le catene globali del valore si accorceranno di molto, e molte delle produzioni mature ma essenziali torneranno nei Paesi che, ai tempi della globalizzazione trionfante, spostavano qualunque cosa, salvo che l’alta tecnologia e la finanza, nei Paesi a basso costo del lavoro e a basso carico fiscale.
L’adattamento dei Paesi produttori al nuovo contesto sarà certamente più lento del necessario. Il grande bacino solare energetico programmato dal piano di Mohammed Bin Salman Vision 2030 è stato bloccato sine die lo scorso novembre, mentre la privatizzazione di Saudi Aramco è stata, ormai, un flop.
Finita la profittabilità del petrolio saudita, finita anche, di conseguenza, la relazione speciale tra Washington e Riyadh, e quindi la penetrazione Usa in Medio Oriente; ma invece inizia oggi un’epoca di forte instabilità delle relazioni tra sauditi e iraniani, dove Teheran potrebbe giocare altre carte, oltre a quelle puramente militari. E, comunque, il petrolio iraniano costa, per la sua estrazione, ben di più di quello saudita.
La Federazione Russa “cade” a un prezzo al barile di 40 Usd, e se Mosca non riesce a controllare il suo interno e l’area di confine con la Cina e il Caucaso, è facilissimo immaginare cosa potrebbe succedere. Anche gli Usa non ridono.
Lo shale oil è la maggior fonte di posti di lavoro in Michigan, Arkansas e Ohio, e si tratta di Stati essenziali per la rielezione di Donald J.Trump, e sicuramente il presidente farà di tutto per sostenere i lavoratori-elettori e quegli Stati.
La fine dell’economia del petrolio è vicina, o forse è già arrivata, e nessuno può immaginare cosa succederà ai mercati energetici e alle nostre economie nel prossimo futuro.