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Quali investimenti per il digital divide? L’opinione di Alegi

“Dopo il coronavirus niente sarà più lo stesso”. Quante volte abbiamo sentito questa frase durante la nostra infinita quarantena? “Sarà come l’11 settembre per il trasporto aereo”. E giù a pronosticare un futuro digitale, nel quale tutto si svolgerà online e scompariranno negozi, aule scolastiche e chissà, persino i luoghi di culto. Un mondo nel quale schermi e pulsanti scandiranno l’interazione sociale. Ma la realtà è diversa: il “decreto rilancio”non stanzia risorse per il digitale, la crisi di liquidità riduce gli acquisti di informatica e nelle aziende del settore serpeggia il timore di licenziamenti.

La narrazione prevalente è quella dello smart working, in cui è bastato un Dpcm di Giuseppe Conte per contrarre magicamente in turni di 600 persone strutture statali centrali di 4.000 persone, per far svolgere le sedute di laurea su Webex Meetings (o Zoom, o Skype, o via dicendo …) e trasmettere la messa su Facebook. Molti hanno probabilmente constatato come la realtà sia ben lontana.

Basta una rapida ricognizione – naturalmente telefonica e, data la natura di alcuni giudizi, sotto condizione di anonimità – per portare alla luce le conferme più disparate. Dal poliziotto che da casa non può neppure controllare le mitiche autocertificazioni per mancanza di accesso sicuro alle banche dati all’alto dirigente che individua nel rinvio l’approccio prevalente, dal paziente oncologico che ricorre alla struttura privata per l’eccessiva rigidità delle strutture pubbliche ai docenti con studenti costretti a seguire le lezioni sui cellulari (e che così facendo finiscono i giga dell’abbonamento assai prima del programma scolastico).

Si potrebbe obiettare che ciò non sia proprio una novità: il nostro digital divide, il ritardo nei collegamenti internet, non si scopre oggi. I parametri europei ne individuano due livelli, l’uno per la banda larga fissa a 2 megabit (una semplice Adsl, che secondo le fonti oggi in Italia raggiunge il 96-99% della popolazione) e l’altro per la banda ultralarga, il minimo per lo smart working (60-80%).

Se c’è del vero in questa osservazione, è altrettanto chiaro che non ci si può fermare qui.

Da un lato, l’economia italiana si caratterizza per la forte componente manifatturiera e dell’ospitalità, che mal si prestano alla digitalizzazione spinta. La produzione – che si tratti degli elicotteri di Leonardo o delle auto di Fca, delle moto Ducati o delle navi da crociera di Fincantieri – richiede la presenza di personale in stabilimenti tradizionali, con servizi comuni (dalle mense ai gabinetti), che mal si prestano allo smart working. Altrettanto vale per il turismo. Che si tratti della Fontana di Trevi, degli Uffizi, della Costa Smeralda o delle Dolomiti, il cliente non vuole l’ennesimo sito web ma vedere con i propri occhi, nuotare con le proprie braccia e calpestare con i propri piedi. Le richieste di apertura di amministratori pubblici e partiti nascono da questo genere di considerazioni.

Dall’altro, è indubbio che la possibilità di svolgere alcune funzioni a distanza aumenta la capacità del paese di resistere e reagire a crisi anche di nuovo tipo. Se il coronavirus è destinato a restare con noi a lungo (così come minacce di altro genere), la soluzione potrebbe essere ancora lo smart working. Sarebbe dunque meglio arrivarci preparati, investendo in infrastrutture (idealmente, banda ultralarga per tutti), collegamenti (per ampliare il numero di quanti possono accedere in maniera sicura alla rete della propria azienda o ente), terminali (computer o tablet, per evitare di fare un esame scritto sullo schermo di 15 cm di uno smartphone. Né si può trascurare la preparazione degli operatori: insegnare via web non significa riprendere una conferenza con una telecamera fissa, così come il cinema non è riprendere uno spettacolo teatrale.

Di tutto questo – un investimento, ma anche una visione del futuro – nelle centinaia di articoli del “decreto rilancio” (ex maggio, ex aprile) c’è poco o niente. Tra cassa integrazione in deroga e rifacimento facciate, centri estivi e stop licenziamenti, contributi per vacanze in Italia e riqualificazione energetica, c’è spazio per 125 milioni di contributi per bici elettriche (e monowheel, Sedgway e persino hoverboard) e forse, a ben guardare, anche per lo scavare buche e riempirle che la leggenda attribuisce a John Maynard Keynes. Dalle anticipazioni di stampa, per telecomunicazioni e informatica, i veri abilitatori dello smart working, ci sarebbero contributi di 300 euro (per nucleo famigliare? A persona?) per l’acquisto di hardware, software o connettività.

Con qualche forzatura, si può dire che secondo il governo si continuerà a lavorare in strutture centralizzate ma che anziché raggiungerle con bus o metro si useranno bici elettriche. Se così fosse, l’organizzazione del lavoro resterebbe non smart (o dovremmo chiamarla dumb?) e cambierebbe solo la modalità di trasporto. Nelle case si continuerebbe a collegarsi (finché bastano i Giga) con cellulari o vecchi PC, collegati al massimo in Adsl. (In quella da cui scrivo ci sono fibra ottica – che non è tecnicamente definita terzo livello, ma di fatto lo è -, wi-fi, cinque computer, un tablet, che in quarantena hanno reso possibile ai tre membri della famiglia di sostenere simultaneamente tre videoconferenze. Ma in Italia la fibra ottica non arriva al 20% della popolazione.)

In un mondo ideale non si dovrebbe scegliere tra infrastrutture digitali e mobilità sostenibile. Nella realtà, la retorica dell’elettrico prevale sul buon senso e sull’opportunità di dare una scossa di innovazione e ammodernamento generale. E così, nonostante il mantra, dopo il Covid-19 in Italia tutto resterà uguale. Se non peggiorerà, beninteso. Perché i soldi per i contributi a pioggia non sono investimento ma fanno comunque deficit e debito.


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