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Libia e Italia, fra rischi militari e opportunità diplomatiche. L’analisi di Varvelli

Le prime immagini sui caccia russi inviati dalla Siria in Libia sono state diffuse giovedì attraverso Digital Globe, satellite open source: un Mig-29 trainato sulla pista della base aerea di Al Jufra, con tanto di georeferenziazione. Al Jufra è un’installazione  militare che si trova nella Libia centro-settentrionale, sulla direttrice geografica del Golfo della Sirte, e che è uno dei grandi centri logistici del signore della guerra dell’Est, Khalifa Haftar. Quei caccia d’epoca sovietica sono parte di un sostentamento che Mosca ha offerto al proprio uomo, impegnato in una campagna per prendere Tripoli; operazione avviata tredici mesi, promettendo che sarebbe stata un’operazione di conquista rapidissima, in queste settimane s’è messa in scivolamento verso la debacle. Secondo informazioni ottenute da Agenzia Nova sarebbero aerei siriani: la Russia li aveva passati a Damasco, che ora, in cambio dell’invio in Libia, otterrà mezzi più aggiornati.

“A me sembra che la roba inviata dalla Russia sia più propaganda che azione politica”, spiega a Formiche.net Arturo Varvelli, direttore dell’ufficio di Roma dell’Ecfr ed esperto internazionale di Libia: “Lo dico anche a giudicare della tipologia di materiale, non proprio pezzi pregiati dell’aviazione russa. Però è chiaro che in un momento di difficoltà Haftar potrebbe usarli anche per azioni pesanti. La situazione è molto rischiosa, perché Haftar non si pone limiti, ed è veramente in grado di fare di tutto”, compresi bombardamenti indiscriminati contro aree civili, come d’altronde già successo in più di un’occasione.

In queste ore diverse fonti dai corridoi del governo di Tripoli riferiscono di una ritirata in atto su alcuni dei fronti di scontro a sud di Tripoli, e dell’imminente presa di Tarhouna, una città a sudest della capitale in cui le milizie di Misurata (che difendono politicamente e militarmente il governo onusiano contro Haftar) hanno avviato da settimane trattative per evitare spargimenti di sangue. Ma i colloqui sono saltati. Oggi la missione Onu per la Libia, Unsmil, ha diffuso una nota rapida su Twitter in cui scrive di seguire “con grande preoccupazione” quello che sta scucendo a Tarhouna, temendo danni sui civili. Il rischio è che nello slancio offensivo della Tripolitania slitti la frizione. Preoccupazione simile, sui civili, è stata sollevata anche dall’ambasciata americana in Libia. Giovedì droni turchi hanno colpito nell’hinterland cittadino e stamattina sono iniziate le operazioni.

Dall’altro fronte, quello dell’Lna – acronimo internazionale della milizia haftariana – altre fonti minori riferiscono che i combattimenti continueranno fino alla morte, ma sembra una retorica propagandistica. (Nota tecnica per i lettori, prima di andare avanti: nessuno dalla Libia parla apertamente, tutti in condizioni di anonimato. Le informazioni vengono fornite con flusso costante, e chi scrive cerca di scremare quelle – molte – nettamente propagandistiche. Ma l’infowar è intensa in questo momento molto fluido, e dunque anche le fonti più solide risultano parzialmente alterate, ndr).

“Haftar – aggiunge il direttore dell’Ecfr romano – è effettivamente in crisi. A Tobruk (città in cui si trova il parlamento HoR, istituzione riconosciuta dal piano negoziale Onu del 2015, ndr) sono disperati e la road map politica lanciata dal presidente parlamentare, Agila Saleh, è un grande segnale di disunità. E la risposta autoritaria di Haftar per bypassare quello sforzo è un altro segnale in questo senso“.

Quanto successo, spiega Varvelli, ci ha oltretutto dimostrato chiaramente che “il campo di Haftar, o meglio della Cirenaica è molto variegato, dunque il punto molto interessante sta nel vedere ciò che faranno certi attori. Su tutti l’Egitto. Perché con gli Emirati c’è convergenza tattica, ma gli egiziani sembrano stanchi e si reputano molto più colti e conoscitori delle dinamiche libiche dei partner del Golfo (i due paesi sono stati i grandi sponsor haftariani da sempre, anche se ora la mossa russa sembra cercare di superarli, ndr). Tuttavia non possono mollare Haftar, tengono botta per evitare che si disintegri, per mantenergli attorno una forma stabile di controllo e potere, e questa è anche la preoccupazione russa”.

Turchia (e Qatar come finanziatore) dal lato della Tripolitania, con un coinvolgimento che è già salito di intensità negli ultimi due mesi e che potrebbe crescere ulteriormente (si parla della possibilità dell’arrivo di caccia F-16 da posizionare nella base di al Watiya, riconquistata recentemente, e di un numero imprecisato di forze speciali che potrebbero guidare le operazioni tripoline, dove già miliziani turcomanni e advisor militari turchi sono in attività). Emirati Arabi, Egitto, Russia (e in modo più sfumato Giordania e in parte Francia) per Haftar, o per la Cirenaica.

La guerra libica è un conflitto internazionale combattuto finora per procura, ma che vede Russia e Turchia aver schierato anche assetti diretti. Tutto accade mentre la missione europea “Irini” per il controllo del rispetto dell’embargo Onu è stata attivata da poche settimane – dopo essere stata annunciata da mesi. Giovedì il Consiglio dei ministri ha avallato la partecipazione italiana, che ha anche la guida militare, nel decreto missioni. Qual è lo stato delle cose? “Inizialmente pensavo che Irini potesse servire almeno come deterrente, ma mi sto ricredendo – commenta Varvelli – perché si sta dimostrando totalmente inutile, anzi dannosa per l’immagine dell’Unione europea. O cambia passo, oppure tanto valeva non avviarla, perché con queste scarse ambizioni e questi grossi limiti, si rischia di essere sbertucciati”.

“Il punto – aggiunge Varvelli – è che nessun attore internazionale ha il pallino della situazione. L’Europa è debole, la Nato è ferma perché c’è un membro molto coinvolto, la Turchia, e a meno che Haftar non usi i jet russi per bombardare il centro residenziale di Tripoli, difficile che faccia qualcosa di più attivo. E poi gli Stati Uniti…”. Giovedì il ministro degli Esteri italiano, Luigi di Maio, ha avuto una conversazione telefonica con il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo: significativo? “È giusto continuare a provare a coinvolgere gli americani, ma credo che l’amministrazione Trump non voglia rischiare in questo momento, perché tra qualche mese si votano le presidenziali e con la pandemia i problemi ci sono già negli Usa. Però è altrettanto vero che, come già visto a novembre dello scorso anno, quando la presenza russa dietro Haftar si fa più evidente Washington alza la retorica”.

La tensione aumenta, ma non è detto che esca dal piano retorico. Elemento centrale è anche l’intenzione turca. Se è vero che al Watiya diventerà una base, un hub mediterraneo, e stando ai protocolli di cooperazione firmati da Tripoli e Ankara – sia quello militare che quello sulla sovrapposizione delle Zone economiche esclusive di novembre 2019 – e agli interessamenti dimostranti per l’off-shore libico, allora il quadro degli interessi della Turchia diventa ampio.

“Per quanto comprendo – aggiunge Varvelli – difficile che i turchi abbiamo deciso di coinvolgersi per poi uscire rapidamente. Abbiamo lasciato aperta la finestra (intende un noi che comprende sia l’Italia che l’Ue, ndr) e la Turchia è entrata. Ora la Libia è diventata un caposaldo della sua politica mediterranea. Sembra che, dopo il ritiro post-Primavere arabe, per il pensiero turco sia arrivato il momento della grande restaurazione”.

Che spazi, dunque? “Credo che l’Italia possa sfruttare la sovrapposizione ormai chiara tra il dossier libico e mediterraneo, in particolare East Med. Roma ha sempre avuto capacità di dialogo con più parti, e forse in quel quadro complesso e articolato, dove la Turchia è percepita come ostile, ci siano spazi per soluzioni diplomatiche più fantasiose attraverso dialoghi con l’Egitto e con Israele”.



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