Entrare nel territorio di Federico Fellini è un’impresa ardimentosa almeno quanto un’avventura senza protezione alcuna in terra incognita. Già la “profanazione” del santuario felliniano – perché così si presenta il suo cinema – è un atto consapevolmente temerario. Se ad essa si aggiunge l’ambizione di provare a penetrarlo nelle sue pieghe più nascoste allora si entra in una dimensione nella quale l’incoscienza e l’imprudenza (o la tracotanza), unite ad una intelligenza investigativa vivissima, dominano la “visitazione” dell’“edificio” felliniano.
L’intento, se tutto questo è vero ed accettabile, non può essere altro che quello di svestire la eccentrica e fantasiosa e intricata costruzione dei simboli, dei rimandi letterari, dell’intrinseco esoterismo che la pervade e mostrarla per quello che è nella sua struttura essenziale, vale a dire priva di orpelli per quanto in taluni casi essi costruiscano parte della stessa essenza artistica dell’opera di Fellini e dunque del suo fantasmagorico “edificio”.
Non si può dire che Isabella Cesarini non abbia tenuto conto dei “rischi” derivanti dall’affronto nell’intento di svelare il Maestro nel suo Edificio Fellini. Anime e corpi di Federico (Les Flâneurs, pp. 159, € 14.00).
Ella è scrittrice accorta e sensibile, dotata del senso della misura, curiosa incontenibile, ma rispettosa e dunque a proprio agio nell’accostarsi all’operazione cui ha atteso; insomma la sua dimestichezza nel trattare personaggi complessi le ha impedito di tralasciare il dato connesso con la “pericolosità” della ricerca inerpicandosi su per le “divine” eppur aspre strade felliniane.
Eppure, per quanto calcolato, il “rischio” nell’affrontare la complessa indagine volta alla visitazione senza barriere dell’“edificio” di Fellini lo si percepisce ad ogni pagina di questo libro essenziale e sontuoso al tempo stesso, elegante, ma non “leccato”, raffinato e tuttavia privo di barocchismi nei quali la tentazione di caderci non si può dire che non sia dietro l’angolo affrontando la maturazione dell’estetica di Fellini.
Sicché un testo come questo, che si presenta come un’innocua, per quanto coinvolgente, elaborazione critica, in realtà si palesa anche ad una prima superficiale lettura per ciò che in realtà è: un itinerario piuttosto insidioso nella “riserva”del cineasta sulla quale vigilano le sue creature, ad un tempo abitanti e custodi dell’universo onirico costruito maniacalmente in epoche diverse, ma con spirito unitario, da Fellini, utilizzando le pietre della sua sensibilità accesa dai sogni e dai desideri e dalle frequentazioni letterarie, non meno che da quelle psicoanalitiche.
E sono soprattutto “femmine” le sacerdotesse a guardia del Tempio che pure agitano con levità e furore, eppure riordinando i fili ingarbugliati delle narrazioni per il semplice fatto che la donna non usura i suoi movimenti, a differenza del maschio, ma offre stabilità anche quando invoglia alla usurpazione di se stessa, come per esempio nella Dolce vita o in Otto e mezzo.
Insomma, “la donna è la custode del focolare con capacità taumaturgiche contemporanee che l’affrettano da un posto all’altro e da un ruolo all’altro”, scrive dopo appropriata diagnosi la Cesarini.
E le sue virtù muliebri, archetipiche in ogni tempo, vengono acciuffate per innestarle in diverse protagoniste del mondo felliniano, non di rado rappresentate come vere e proprie eroine. Mai delle sante, va detto; piuttosto delle simil-guerriere in lotta per il riconoscimento delle loro virtù persino quando di virtù ne hanno poche e quel tanto lo vendono senza farsi molti problemi. Un po’ per divertirsi, un po’ per necessità, un po’ per affermare il loro predominio di cacciatrici ancorché consapevoli di essere cacciate.
La Città delle donne è emblematica al riguardo. Nel film l’elemento femmineo trionfa più che in altre opere fino a presentarsi come fiabesco forse – ma qui eccedo volentieri in una interpretazione tutta personale, e forse arbitraria – perché in esso lo stesso Fellini ha inteso esaltare il principio della vita connesso con quello del desiderio, entrambi “isolati” come prova del suo innato antintellettualismo cui oppone l’autenticità dell’esistenza.
La Casarini intelligentemente esemplifica annotando come le opere felliniane costituiscano l’epifania di un “isterismo tutto italiano, una sorta di solenne istantanea dell’andatura del paese”.
Dunque, un ritratto del carattere italiano? Perché no. Se si considera che le esercitazioni felliniane incominciarono in giovane età nella fornace giornalistica del “Marc’Aurelio”, dove presero le mosse le configurazioni umoristiche e sarcastiche dell’italiano medio e di una nazione che non riusciva a stare al passo con i tempi e con le ambizioni del regime (si era nel 1939), si capisce come questo bagaglio preparato nel tempo di una “vigilia ansiosa” non potesse che essere trasferito nell’“edificio”che avrebbe costruito, simile ad una “festa mobile” di hemingwayana fattura, nella quale le donne, come s’è detto, fanno irruzione gioiosamente e ludicamente e impudicamente condizionando la variopinta umanità che le circonda.
Le notti di Cabiria, al riguardo, è una pellicola emblematica nella quale la “prostituta con i sandaletti fanciulleschi e il candore dello sguardo” è la principessa dei sogni in movimento che attivano desideri e rivalse, nel tentativo – a volte disperato – di affermare il principio dell’amore, fonte creativa per eccellenza e dal quale niente e nessuno può prescindere, neppure il più cinico degli “eroi” felliniani.
Cabiria, rispetto ai molti personaggio costruiti del Maestro, oltretutto ha qualcosa in più: “È ingenua, crede nel sentimento e di questo si fa guardiana. Combatte a suon di innocenza un principio vitale: l’affermazione dell’amore sul mondo. Pur nelle controversie che una prostituta può incontrare nelle notti romane, conserva sempre il suo pudore in quel faccino da circo e in quell’esile corpicino infoschito dal goffo ancheggiamento che il ruolo richiede. Il suo è un travestimento volto a riportare l’amore a casa, tra gli esseri umani”, scrive la Cesarini. E tratteggia così un personaggio psicologicamente ricco, dotato di un’anima che forse lo stesso Fellini non immaginava di costruirgliela tanto intensa e profonda. È la metafora di un’umanità dolente e splendente, persino regale il cui fascino sta nella congiunzione tra le molte contraddizioni che l’animano.
Lo stimolo di Fellini alla ricerca, del quale Cabiria è uno dei prodotti più maturi, è determinato da una profonda volontà di indagare se stesso e le creature che abitano ed agitano la sua fervida fantasia. Insomma, una costruzione come conoscenza dall’esplorazione dell’inconscio nel quale il mondo onirico che incontra è la rappresentazione dell’essenza della realtà, dei suoi significati più riposti, e non l’apparenza che fuggendo inganna coloro che non hanno dimestichezza con l’approfondimento, che non sono adusi frequentare l’archeologia dell’anima.
Perciò Fellini sembra intessere un dialogo fitto, innalzando le impalcature che devono sorreggere le sue opere, con Calvino, Dickens, Char, Breton, Èluard, Rol, Buzzati e tanti altri. Sono le sorgenti del suo “sapere” dalle quali trae il “troppo e il vano”.
Un libro eccellente, questo di Isabella Cesarini che eccita suggestioni e memorizza richiami lontani, che si spinge , per la prima volta credo, nell’esegesi delle fonti felliniane al fine di immettere il lettore nella clausura nella quale il regista approntava le iridescenti metafore della modernità insaporite dallo spirito corrosivo, distaccato, apparentemente scontroso dell’uomo che aveva fatto della sua stessa vita un’opera d’arte.
Apro Il libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa, firmato dal suo eteronimo più noto, Alvaro de Campos, e leggo: “Io non ho fatto altro che sognare. È stato questo, e solo questo, il senso della mia vita interiore. I più grandi dolori della mia vita si attenuano quando, aprendo la finestra che dà dentro di me, posso dimenticare me stesso alla vista del muso movimento”.
Credo che Fellini tra le magie ed i sogni di Cinecittà – il suo paradiso terrestre e, forse, anche quello celeste o almeno scambiato per esso – abbia dimenticato se stesso rinchiudendosi in un confortevole edificio nel quale letteratura, ricordi, psicoanalisi, sentimenti hanno danzato sul ritmo delle musiche che maggiormente gli sembravano consone a sottolineare le dinamiche poetiche e spirituali cui dava vita. Il suo, conclude la Cesarini, al culmine di una vibrante e scintillante disamina tra le foglie vive del bosco di enigmi felliniani, “è un mondo inconsueto, ossessivo, morboso, sempre scagionato dalla deformazione fantastica… Penetrare nel suo lavoro significa attraversare l’inconscio di un uomo epico”.
Isabella Cesarini, è riuscita nell’impresa salendo e scendendo i molti scalini di un edificio sontuoso eppur fragile; imponente, ma fatto di cartapesta; inabitabile come lo sono i sogni eppure ospitale, in grado di accogliere tutte le inquietudini.