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Caro Landini, lo statalismo porta al fallimento

Maurizio Landini ha il pregio di parlare chiaramente e, in questo caso, di dare voce a idee coltivate da molti altri, meno dotati di chiarezza ideale ed espositiva. Egli sostiene, fra le altre cose, che i prestiti garantiti si possono dare se le aziende rispettano due condizioni: a. per la durata del prestino non dovranno delocalizzare; b. se (con specifico riferimento ad Fca) hanno partnership o fusioni con società nel cui capitale c’è lo Stato occorre che anche da parte italiana sia fatta la stessa cosa. Due vincoli che portano al fallimento.

L’avversità alle delocalizzazioni chiude la stagione dell’internazionalismo operaio: non più lavoratori di tutto il mondo unitevi, ma proteggetevi dai lavoratori di altri Paesi. A parte ciò: non funziona. Perché se è vero che praticare la delocalizzazione con attenzione esclusiva ai costi di produzione, sottovalutando la gestibilità di catene del valore troppo lunghe o, addirittura, concentrandola in posti troppo soggetti agli umori dei governi locali sia un errore, lo è anche supporre che si possa tenere tutto nel cortile di casa, pagando qualsiasi costo diretto e indiretto, economico e ambientale, senza che questo si ripercuota sul prezzo finale. Quindi in uno svantaggio per il consumatore autoctono. Governare queste scelte è il compito delle direzioni aziendali, non dei governi. Ove i secondi condizionino i prestiti con degli impedimenti costruiscono produttori che potranno restare in piedi solo grazie ai sussidi, quindi con un costo per i contribuenti. Siccome consumatori e contribuenti sono, più o meno, le stesse persone, ne deriva che la reclamizzata supremazia nazionale si traduce per loro in un impoverimento. Sarà pure bello tornare a quando un paio di scarpe da ginnastica erano un investimento (la mia infanzia), ma tendo a credere che sia migliore il mondo in cui i meno abbienti se ne possano permettere diverse, non cambiandole (come noi facevamo) per tirare un calcio al pallone.

La seconda condizione parte dal presupposto che avere lo Stato nell’azionariato sia un vantaggio nel mettere l’azienda al servizio degli interessi nazionali. Nella realtà abbiamo numerosi e solidi esempi di quel che significa: mettere i vertici aziendali, le politiche d’assunzione e i rapporti sindacali in mano alle forze politiche dominanti. Il che, sia chiaro, riguarda tutti, perché i grandi avversari della lottizzazione di ieri sono i protagonisti di quella di oggi. Il che è pure naturale, perché se le nomine le fa la politica adotterà criteri politici.

Ma, si replica, la Francia lo fa. Vero, infatti è malata. Sta meglio di noi perché ha conservato una classe dirigente, cosa qui praticamente scomparsa, ma è messa male assai. E, comunque, la seconda potenza industriale europea siamo noi, non loro. Essere invidiosi di quel che da loro non funziona non è un bel segnale o, meglio, segnala che si pensa di giocare nel futuro una partita che si è risolta (male) nel passato.

L’Italia fece il miracolo economico fra il 1950 e il 1970. Lavorando. Ma molti italiani sono nostalgici di quella fra il 1970 e il 1990, quando, terrorismo a parte, si gettarono le basi dell’odierna rovina. La pandemia è solo un’aggravante, noi eravamo in condizioni allarmanti già a gennaio. L’idea di usare i soldi ora disponibili per consolidare il male anziché recuperare il bene la dice lunga su quale idea di Paese è nella mente di troppi.



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