L’impatto delle misure di lockdown legate al contenimento dell’emergenza epidemiologica da Covid-19 sono di portata storica. Quasi il 50% delle imprese – 1.334 miliardi di euro di fatturato e 309 di valore aggiunto secondo l’Istat – è stato formalmente sospeso dai provvedimenti che si sono susseguiti interessando oltre sette milioni di lavoratori.
Gli effetti di questo blocco improvviso non incidono soltanto nell’immediato, in particolar modo sulla contrazione di fatturato di queste stesse imprese e di quelle penalizzate anche indirettamente dalle restrizioni alla libertà economica e di movimento, ma anche sulla loro capacità di finanziamento.
Prima di tutto per un eccesso cronico di burocrazia che in Italia – anche per colpa della complessità normativa che ne favorisce il proliferare – non affligge soltanto la pubblica amministrazione ma colpisce anche l’impresa bancaria, rallentandone efficienza e capacità di risposta specie nelle fasi acute, come quella attuale, che richiedono maggiore rapidità di esecuzione e tempi di risposta immediati. Per ora, anche le 37.000 domande di prestito perfezionate relative al target facilitato entro i 25.000 euro – per circa 800 milioni di importo finanziato – sono il risultato di un sistema complesso che richiede, solo per la domanda al Fondo di Garanzia, la compilazione di 27 pagine di informazioni. Non esattamente un esempio di intervento agile.
La capacità di finanziamento del sistema produttivo, però, non è limitata solo da questo ma – specialmente se riferita alle Mpmi – soffre una situazione in termini di liquidità che risultava essere non del tutto adeguata ancor prima dell’avvento dell’epidemia. Senza contare che da questo punto di vista rischiano di pagare maggiormente la crisi proprio i settori che, già meno di altri, avevano possibilità di accesso al mercato del credito.
Gli obiettivi di policy richiesti devono quindi essere volti non solo ad evitare i fallimenti delle imprese – nel breve termine – ma anche ad impedire che il tessuto produttivo e la demografia imprenditoriale in Italia escano da questa crisi più deboli di prima, nel medio-lungo termine.
Il Documento di Economia e Finanza 2020 registra, d’altra parte, una ulteriore riduzione del 3,2% del credito al settore privato nel 2019.
Questa riduzione è dovuta in modo particolare alla contrazione del 7% – dopo il -6,6% del 2018 – proprio dei prestiti concessi alle imprese non finanziarie mentre quelli alle famiglie hanno visto un leggero incremento. Pesa quindi il calo dei finanziamenti alle aziende, sia alle imprese familiari (meno 5 miliardi) sia alle imprese societarie (meno 46 miliardi). Con un taglio complessivo per il corporate non finanziario di 51 miliardi di euro.
Inoltre, se si guarda al dettaglio del credito alle imprese per dimensione e classe di rischio, emerge come la contrazione del credito abbia interessato tutte le imprese, a prescindere dalla loro dimensione, e persino quelle più grandi che, fino al 2018, avevano comunque avuto un discreto accesso al credito. Non solo, ma a fronte di tassi di interesse rimasti contenuti intorno all’1,18% medio, è rimasta particolarmente rilevante la differenza tra i costi di finanziamento delle imprese piccole rispetto a quelle più grandi e questo anche a parità di classe di rischio.
Il miglioramento della qualità del credito, che è stato costante in questi anni, porta il settore corporate non finance – che pesa per oltre il 70% delle sofferenze – ad esposizioni deteriorate pari al 7,7% del totale dei prestiti. Un livello comunque sensibilmente più elevato rispetto alla media UE che è del 3%, con la Germania all’1%, Spagna al 4% e la Francia al 3%.
Se da una parte la contrazione del credito erogato è dovuta, per alcuni segmenti di imprese, ad un ampliamento dei canali di finanziamento non bancari – nel 2019 si è registrato un incremento del 25 per cento del volume di collocamenti obbligazionari rispetto al quinquennio precedente e, sul mercato azionario, un record di ammissioni dal 2000 ad oggi – lo stesso non può dirsi per le Mpmi, il cui accesso al credito resta invece sostanzialmente bancario e risente quindi in modo particolare dell’inversione del ciclo. Una debolezza che caratterizza il sistema economico del nostro Paese in maniera peculiare rispetto ad altri contesti internazionali, tanto più in una fase come questa che inevitabilmente allarga gli spread di competitività.
C’è, d’altra parte, una relazione tra prolungata stagnazione e la grandissima diffusione di piccole e piccolissime imprese in alcuni casi scarsamente competitive e poco patrimonializzate e non è un caso che questi due fenomeni abbiano caratterizzato gli ultimi venti anni della storia italiana.
L’incidenza di aziende zombie in Italia – come barriera alla crescita di produttività – è stata paradossalmente accentuata dalla crisi del 2008 alla quale sono sopravvissute, in particolar modo proprio nel segmento Mpmi, anche imprese appunto poco produttive.
Basti riferirsi, da questo punto di vista, al policy paper Oecd “Confronting the zombies: policies for productivity revival” del dicembre 2017, dal quale emerge come le imprese che non riescono nemmeno a ripagare gli interessi sul debito da almeno tre anni siano aumentate, in percentuale, in Italia più che altrove. Se nel 2007 andava a queste imprese il 7% dei capitali, nel 2013 la percentuale era già salita al 19% assorbendo il 10% della forza lavoro.
Inoltre, spesso, alle relative sofferenze è corrisposto un allungamento delle scadenze o un rinnovo dei prestiti da parte delle banche per evitare così di iscrivere a bilancio le perdite, deteriorando nei fatti il sistema economico che rischia così di essere meno resiliente ad una crisi esogena ma potente come quella attuale. Questo fenomeno ha infatti generato una concentrazione superiore alla normale dinamica di mercato che ha appesantito i canali di erogazione del credito, limitando la possibilità per aziende sane – anche piccole e medie – di crescere e migliorare la propria produttività.
La crisi finanziaria ha da noi mostrato, in sostanza, una mancata capacità correttiva del mercato che avrebbe dovuto favorire una riallocazione del capitale tra le imprese in grado di rimanere effettivamente competitive, senza riuscirvi a causa di esternalità tipicamente legate a scelte politiche inefficienti e a crony capitalism. Non a caso si parla di misallocazione del credito e delle risorse come una delle cause principali della bassa produttività.
E se è stato vero per la crisi finanziaria del 2008, questo è tanto più vero nella crisi attuale dove le politiche fiscali e di sostegno comunque messe in campo dallo Stato non sono guidate dai principi di mercato – dovendo far fronte ad una situazione di emergenza senza precedenti – ma sono anzi caratterizzate da una tendenza a mantenere in vita anche realtà inefficienti nell’idea che “nessuno sarà lasciato solo”.
È chiaro che in questa condizione i provvedimenti di facilitazione dell’accesso al credito attuati con il D.L. n. 23/2020 rischiano di cadere su un sistema deteriorato e, spesso, sottocapitalizzato. L’esposizione netta delle imprese in termini di indebitamento, cioè la loro esposizione finanziaria complessiva, è quindi un aspetto che non va trascurato per evitare che questa massa di debito oggi garantita da provvedimenti straordinari possa domani trasformarsi in una mina vagante anche per il sistema bancario oltre che per le casse pubbliche. Infatti, l’indice di indebitamento rappresenta comunque una funzione di risposta allo shock epidemico e, al contempo, agli interventi di policy preposti in risposta all’emergenza stessa.
Da un numero abbastanza ampio di osservazioni disponibili su un campione di circa 22.000 micro, piccole e medie imprese – dai cui bilanci disponibili è possibile calcolare il rapporto di leva finanziaria – emerge come in particolare in alcuni settori, da sempre meno patrimonializzati, mediamente si riscontri un leverage di gran lunga superiore a due. Questo dato, seppur rappresentando un campione esiguo, evidenzia la difficoltà di una parte importante del nostro sistema di imprese strutturalmente indebitate e sottocapitalizzate di accedere ad ulteriore credito senza il rischio di aumentarne la probabilità di fallimento, mancando così l’obiettivo di allocare in maniera efficiente le risorse.
In questo senso il valore di alcuni interventi di facilitazione del credito, oltre una certa soglia di sensibilità, potrebbe essere massimizzato comprendendo a monte la valutazione di altre componenti, come appunto la leva finanziaria delle singole imprese, rendendo in tal modo l’azione di intervento ancora più accurata e ramificata. Occorre evitare di innescare un circolo vizioso che porti ad una stagnazione perpetua e fare in modo che il credito, che comunque verrà erogato con l’assistenza delle garanzie di cui al D.L. n. 23/2020, possa essere realmente valorizzato ed avere un effetto moltiplicatore più certo e tracciabile. Intendendo con effetto moltiplicatore anche la capacità di generare liquidità a favore di altre aziende, magari più piccole, che hanno più difficoltà ad accedere ai canali bancari.
Per questo motivo, per le aziende medio-grandi che attiveranno la richiesta di credito garantito – ed al ricorrere di determinate condizioni – ne andrebbe favorita l’erogazione con l’innesto incentivato di operazioni collegate di supply chain finance. In sostanza l’impresa medio-grande che ne abbia necessità accede sì al credito di vantaggio erogato dalla banca con garanzia pubblica ma, insieme ad esso, dà vita ad un meccanismo incentivato di reverse factoring attraverso il quale garantisce liquidità immediata e pagamenti ai suoi fornitori, liberando in questo modo risorse per la filiera sottostante senza però indebitarla ed anzi consentendogli di sfruttare il suo stesso merito di credito.
Nonostante gli sforzi fatti dall’esecutivo, infatti, per gran parte delle Mpmi analizzate il problema di essere sotto capitalizzate permane, impedendo loro di trarre vantaggio da qualsiasi forma di liquidità, a meno che questa non sia erogata a fondo perduto.
Per questo deve esserne incentivata l’inclusione in termini di filiera (medio-grandi e piccole), attraverso la quale – ed in particolare grazie alla supply chain finance – potrebbero sfruttare economie di scala esterne, massimizzando la liquidità che riceve uno o più partecipanti della catena. D’altronde, va detto che oggi la crescita della produttività dipende sempre più dal consolidamento delle value chains; lo scoppio della crisi epidemica non muterà questa necessità e ha semmai messo in luce l’esigenza di rendere queste interdipendenze “vicine” (nello stesso distretto, città, regione) e non “lontane” (da paese a paese).
Questa forma di erogazione dei prestiti, combinata in un’ottica di filiera, è in grado di fare in modo che questa liquidità sia indirizzata verso imprese che siano capaci di ricostruire un tessuto produttivo credibile anche per un numero più ampio di aziende interconnesse. Va poi chiaramente garantito un ecosistema capace di concorrere ad una liberazione del canale bancario chiamato ad un impegno straordinario, non solo per l’insieme delle misure previste dal D.L. n. 23 dell’8 aprile 2020 ma anche per gli anticipi dei trattamenti di cassa integrazione di cui al Protocollo Abi del marzo scorso, che stanno peraltro scontando numerose difficoltà legate proprio ad un sovraccarico del canale, oltre che ad una burocrazia ancora eccessiva nonostante gli sforzi di semplificazione fatti.
Inoltre la mole di questi crediti garantiti dallo Stato rischia domani, alla scadenza, di incontrare enormi difficoltà nel rinnovo del prestito essendo ovviamente disincentivato l’istituto a quel punto a rinnovare un rapporto stand-alone e senza più la garanzia dalla quale era assistito.
Il sistema deve essere quindi “aiutato” attraverso operazioni di cartolarizzazione che consentano di liberarne una parte, valutando la costituzione di una Spv dedicata e pubblica – o comunque adeguatamente supportata dallo Stato – che emetta poi sul mercato Abs. Tale operazione potrebbe essere così in grado di contribuite a favorire il processo ed un notevole incremento del credito e micro-credito al sistema economico, grazie alla possibilità di securitisation ed alla conseguente liquidità che ne deriverebbe per il bilancio delle singole banche.
A questo framework si dovrebbe affiancare una maggiore azione da parte dei Fia, che possano coinvolgere positivamente i capitali pazienti degli investitori istituzionali. I Fia per le loro caratteristiche potrebbero avere come sottostante diverse tipologie di questi impieghi – anche dirette nei confronti delle imprese, ad esempio con operazioni di cartolarizzazione, di sconto fatture o attraverso operazioni di smobilizzo magazzino, di difficile accesso per le banche ma che garantiscono invece flussi di liquidità immediata – contribuendo ad una maggiore diversificazione dei canali di finanziamento, sia di breve termine per far fronte all’emergenza, che di medio-lungo periodo per sostenere l’immane sforzo della ricostruzione del tessuto attraverso, in particolare, iniziative di private equity e private debt.
In quest’ottica, è chiaro che va evitata qualsiasi discriminazione nelle forme di funding, che andrebbe in direzione opposta all’esigenza attuale di moltiplicarne i canali, assicurando l’estensione delle garanzie del D.L. n. 23/2020 (articoli 1 e 13) anche ai Fia e alle operazioni di factoring.
Al ruolo fondamentale del credito devono, però, essere affiancate erogazioni a fondo perduto che possano capillarmente arrivare al sistema delle imprese e, in particolar modo, a quelle maggiormente colpite dalle limitazioni alla libertà economica e di movimento conseguenti al lockdown prolungato.
In questo senso, il valore economico della compensazione – sia nell’immediato che a consuntivo con l’eventuale conguaglio – deve essere certamente commisurato alla flessione di valore aggiunto registrata, come ipotizzato da Giovanni Tria e Pasquale Scandizzo in un recente lavoro, ma anche ad altri parametri di bilancio quali appunto la leva finanziaria, la liquidità e il margine operativo lordo. Ciò al fine di identificare in maniera più puntuale il grado di necessità dell’intervento a fondo perduto tenendo maggiormente conto della eterogeneità imprenditoriale italiana, mettendo in luce e considerando non solo la semplice perdita di fatturato ma anche la notevole asimmetria dovuta alla differente esposizione e, quindi, la diversa capacità di reazione da parte delle imprese allo shock.
Inoltre, il vantaggio di utilizzare tutte le informazioni fornite dal bilancio risiede nella possibilità di rendere l’intervento capillare e di assicurare quindi che riesca a favorire e aiutare non solo le micro e le piccole imprese in generale, ma anche a “diversificare” questi aiuti in risposta alle diverse esigenze e condizioni. Quasi come fosse un intervento tailor made, in grado di cogliere obiettivi specifici e di non disperdere risorse.
L’efficacia di tale compensazione è poi intrinsecamente legata alla velocità con la quale può essere messa a disposizione del sistema imprenditoriale, evitando in particolar modo i ritardi già conosciuti con gli strumenti messi in campo dal D.L. Cura Italia del 17 marzo (indennità di 600 euro in particolare) e dal D.L. Liquidità dell’8 aprile scorso.
Per questo il canale bancario può essere il soggetto più immediato e ideale grazie alla capillarità e vicinanza dello stesso ad ogni singolo imprenditore interessato. Un canale che va in ogni caso agevolato e non ostacolato nel ricoprire il proprio ruolo e la propria responsabilità. Ciò detto, sembra quindi difficile che un’azione del genere possa essere realizzata dal sistema erogando direttamente la liquidità spettante per conto dello Stato. Anche perché la stessa diventerebbe, nei fatti, un’operazione di anticipazione per conto della Pubblica Amministrazione nei confronti del sistema produttivo ed una siffatta operazione costituirebbe quindi un eccessivo ed ulteriore impegno di liquidità.
Peraltro, misure di questo tipo – anche quando coordinate come in quest’ultimo caso (ed in passato, come anche nel caso di anticipo del Tfs degli statali) – hanno sempre previsto un costo, seppur minimo, legato appunto all’anticipo di liquidità. Allineandosi quindi a quella che pur sempre è un’operazione di factoring che, senza rendimento per chi anticipa, diventa una partita di giro con rischio non remunerato e, quindi, un’esperienza non di mercato. Né può immaginarsi un’esclusione per legge di tale onere applicato, che rischierebbe di impattare sulle imprese bancarie minandone quell’indipendenza fondamentale rispetto all’azione del legislatore.
Per questo appare più efficiente pensare ad un intervento di compensazione, da implementare non attraverso un’erogazione diretta a fondo perduto, quanto piuttosto tramite la formula tecnica dello “scoperto di conto corrente” a titolo gratuito – o comunque a costo minimo – in quanto appunto garantito dallo Stato. In tal caso l’impresa utilizzerebbe, per un importo pari a quello cui ha diritto per il meccanismo della compensazione, l’apertura di credito direttamente in conto corrente e, allo stesso tempo, le banche eviterebbero però di dover far fronte all’esborso completo delle somme di denaro, rendendo l’intervento più facilmente attuabile nell’immediato e con un minor impatto sulla liquidità del sistema di credito.
Data anche l’attuale pressione sulle banche, e quella che immaginiamo possa derivare dall’insieme delle misure che verranno adottate per la ripresa del sistema produttivo, questa linea alternativa consentirebbe una maggiore elasticità, oltre a fornire laddove previsti costi più favorevoli perché calcolati su somme effettivamente utilizzate. Questa alternativa sarebbe in grado di rispondere meglio all’attuale contesto perché garantirebbe rapidamente disponibilità a fronte di una situazione di temporanea illiquidità delle imprese. Il veicolo così immaginato – come terminale bancario dell’operazione – sarebbe però, al tempo stesso, più sostenibile per un sistema bancario italiano spesso fragile in alcune sue componenti e che, tanto più in una fase come questa, potrebbe quindi essere ulteriormente appesantito da carichi finanziari aggiuntivi che correrebbero il rischio di minarne la fluidità d’azione.
Occorre, infine, un impegno dello Stato per garantire quella liquidità bloccata che è rappresentata dai pagamenti dovuti dalla Pa al sistema delle imprese, oltre 50 miliardi secondo la Banca d’Italia, che andrebbero finalmente sbloccati consentendo un’ampia operazione di compensazione tra crediti e debiti del mondo imprenditoriale nei confronti di qualsiasi articolazione dell’amministrazione pubblica. Un’operazione doverosa in un momento come quello attuale in cui ognuno è chiamato ad uno sforzo straordinario, in primis l’organizzazione statale.
In sintesi, per far fronte in maniera efficace ed efficiente alla situazione attuale occorre:
• liquidità immediata attraverso una migliore targetizzazione del canale bancario, anche grazie al collegamento del credito agevolato con strumenti incentivati di supply chain finance che possano liberare liquidità sulle filiere;
• un alleggerimento del peso degli interventi sul sistema bancario – che superi anche il potenziale problema di disincentivo al rinnovo dei prestiti stand alone senza più garanzia pubblica – grazie all’implementazione di operazioni di cartolarizzazione tramite SPV pubbliche o comunque adeguatamente supportate;
• una diversificazione del canale bancario, attraverso il ruolo dei FIA per la liquidità di breve (sconto fatture, magazzino o operazioni di credito e cartolarizzazioni), medio e lungo termine (private debt, private equity ecc.);
• una più efficace modulazione degli interventi di compensazione, attraverso una più ampia valutazione delle voci di bilancio delle aziende coinvolte, che tenga quindi conto non solo della perdita di valore aggiunto ma anche di altri parametri fondamentali (liquidità, leva ecc.);
• una velocizzazione del sistema di riconoscimento della compensazione da parte del terminale bancario, attraverso lo strumento dello scoperto di conto corrente;
• lo sblocco dei debiti della Pa nei confronti delle imprese attraverso la possibilità di compensazione debiti/crediti per le aziende.
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