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Pochi scherzi sul Mes. Il richiamo di Polillo alla responsabilità del governo

Alla fine sul Mes è andata come doveva andare. O meglio com’era auspicabile che andasse. Con un unico vincolo: che le somme ottenute con prestiti a bassissimo impatto sugli equilibri di finanza pubblica siano, almeno, spesi bene. Per sostenere i costi diretti ed indiretti che hanno riguardato e riguarderanno il coronavirus: visto che con quel dannato flagello si dovrà convivere almeno fin quando non vi saranno vaccini e cure appropriate.

È stata indubbiamente una decisione sofferta da parte dell’Eurozona. Con inutili bracci di ferro e tentativi di colpi bassi. Come quello olandese che ha cercato, fino all’ultimo, di difendere un accordo scritto, all’inizio, in modo ambiguo. Per la grande soddisfazione di ogni euroscettico, pronto a gridare contro una nuova “perfida Albione”.

Per tutti costoro sarà, oggi, un problema tornare indietro. Non tanto per l’opposizione che potrà sempre giustificarsi. Se non vi fossero state proteste e minacce, probabilmente oggi si dovrebbe celebrare un epitaffio. Ma per il governo, soprattutto per il presidente del consiglio Giuseppe Conte, non saranno rose e fiori. La loro ostilità preconcetta, seppure progressivamente rinculante, è stata un inutile azzardo. Spie di contraddizioni latenti, specie all’interno dei 5 Stelle dove non si capisce chi comanda. Ma soprattutto chi comanderà nei prossimi giorni. Conte non si è limitato al nobile esercizio della leadership di governo, che richiede prudenza, self restraint, understatement, per far prevalere i fatti sulle parole. Ha mantenuto il piede in due staffe. Pensando, come si dice, a futuri ruoli politici, che impongono la necessità di apparire. E dare voce, fin da ora, al mondo che si intende rappresentare.

Ma nel gestire questa fase convulsa, era pur sempre necessario non perdere mai di vista le reali condizioni del Paese. Il suo lento declinare verso una crisi economica, che sarà ben più pesante di quella epidemica. Che oggi fa meno paura. Impressionante, da questo punto di vista, la fotografia scattata dalla Commissione europea solo qualche giorno fa. Impressionante, ma soprattutto destinata ad essere una sorta di tagliando, che la Commissione offre a tutti gli operatori del mercato unico europeo. Ed ha il pregio di rendere immediatamente visibile le differenze che intercorrono tra i diversi Paesi. In una sorta di pagella collettiva, in cui i singoli numeri hanno quasi il valore di un voto nei confronti di ciascuna classe dirigente.

L’Italia ne esce particolarmente male. Le previsioni della Commissione sono peggiorative rispetto a quelle del Def. La decrescita è ancora più (in)felice: meno 9,5 per cento, contro il 7,1 del governo. Distanza che non sarà recuperata nel 2021. Il deficit crescerà fino all’11,1 per cento, contro il 10,4 ed il rapporto debito/Pil di oltre 3 punti in più: fino al 158,9 per cento. Poca roba, si potrebbe dire, di fronte alla catastrofe di una pandemia, che non ha precedenti in un secolo di storia. Ed in effetti è così. Quello che invece preoccupa è il confronto sistemico con gli altri Paesi dell’Eurozona. Con l’Italia stabilmente collocata agli ultimi posti. Peggio di noi sta solo la Grecia, che tuttavia mostra segni di recupero rispetto al baratro in cui era sprofondata. Soprattutto sul terreno della finanza pubblica.

Alcune anomalie italiane risultano fin troppo evidenti. Siamo il Paese che presenta l’indebitamento di bilancio maggiore ed il più alto carico d’interessi. La stessa Grecia fa meglio di noi. E che non si tratti di semplice congiuntura, è dimostrato dal saldo strutturale di bilancio, che vede ancora una volta troneggiare la situazione italiana. Troppe poche tasse, verrebbe da pensare. Ma non è così. Le entrate pubbliche italiane sono inferiori solo alla Francia, il Belgio, la Grecia, l’Austria e la Finlandia. Ma solo di qualche decimale. Mentre lungo la frontiera del deficit si passa da quelle piccole differenze alla sostanza di punti di Pil. Il segno più evidente di una spesa pubblica – quella italiana – anarchica. Anni luce lontana dal senso comune, giusto o sbagliato che sia, che domina in Europa.

Volendo sintetizzare al massimo, nell’immaginario europeo, l’Italia appare essere il Paese che non cresce. O cresce meno di tutti. Ha un carico fiscale di tutto rispetto. Ma gli incassi relativi sono usati male. Ed è quindi costretto a ricorrere al debito. Altro che buon padre di famiglia. Lo Stato italiano appartiene alla tipologia dei padri padroni, che usano le risorse familiari per il proprio tornaconto, piuttosto che preoccuparsi di far crescere i figli, assicurando loro una prospettiva di benessere. Padri, per altro arroganti: pronti a scaricare sugli altri le proprie responsabilità. L’Europa matrigna. O pretendere una solidarietà calibrata esclusivamente sulle proprie esigenze. Facendo balenare, altrimenti, la minaccia di possibili cambiamenti negli assi della politica estera. A favore della Cina comunista o della Russia di Putin.

Un gioco pericoloso e fuorviante. Le “tre misure Sure, Bei e Mes” – ha ribadito proprio ieri Giuseppe Conte – sono insufficienti”. Il tutto in nome di un Recovery Fund, ancora di là da venire. Se mai arriverà.

E Luigi Di Maio ci ha messo un carico da undici. Dopo aver dato l’impressione di essere più possibilista, l’immediata precisazione da parte del suo staff: “”In merito al titolo de La Stampa di stamane, specifichiamo che il ministro Luigi Di Maio non ha mai detto ‘sul Mes si può trattare’. Il titolo è del tutto inventato”. Sarà anche così, ma i dati economici e finanziari sono pietre. Le tre misure indicate da Conte valgono 540 miliardi. All’Italia ne andrebbero 90. Con quella somma si potrebbe finanziare circa il 60 per cento del maggior deficit ed il 50 per cento del maggior debito. Possiamo continuare pure ad essere altezzosi. Ma anche irresponsabili?


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