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Perché per la crescita sarebbe meglio una Repubblica presidenziale. Scrive Capozzi

Nell’appello a difesa dell’interesse nazionale e dell’economia italiana per il post-pandemia lanciato da Giulio Sapelli – da me condiviso insieme ad altri e pubblicato per la prima volta su Formiche.net – c’è un elemento che credo qui importante sottolineare: non si può rilanciare l’economia con l’energia che la presente situazione di emergenza richiede, non si può salvaguardare efficacemente l’interesse nazionale, non si può avere uno “Stato innovatore” in luogo di uno “Stato servile” pauperistico e assistenziale se non si ridisegnano finalmente le istituzioni e l’amministrazione nel senso della piena legittimazione democratica e della responsabilità.

Da tale punto di vista, occorre in primo luogo rendersi conto che l’Italia  sarà in grado di difendere con autorevolezza i propri interessi in un mondo globalizzato sempre più conflittuale soltanto se si rafforzeranno in misura decisa, nel suo impianto costituzionale, i poteri di decisione del governo, ma anche, al tempo stesso, la sua accountability, il suo dovere di rispondere del proprio operato davanti al giudizio di elettori che hanno assegnato ad esso un inequivocabile mandato.

È essenziale, insomma, porre fine all’interminabile tela di Penelope che da quasi quarant’anni blocca le necessarie riforme istituzionali e costituzionali del Paese. Il grande gioco della competizione globale si fonda oggi sul pieno ritorno della politica come decisione a livello nazionale contro la vaghezza e gli inganni di una governance affidata a istituzioni oligarchiche, elitarie, incontrollabili. L’Italia deve darsi un governo forte, dotato di delega piena ad agire, ma salvaguardando l’espressione della sovranità popolare e le libertà costituzionali. Ciò può avvenire soltanto adottando una forma di Repubblica presidenziale o semi-presidenziale, che non può essere vista ormai come patrimonio di questa o quella forza politica, ma sulla quale è possible convergere anche tra orientamenti molto diversi, come è avvenuto a suo tempo in Francia, in nome della comune percezione del contesto internazionale e delle sfide interne rispetto a cui la nostra democrazia deve muoversi.

Il consolidamento di un potere decisionale nazionale chiaramente legittimato deve essere poi bilanciato – meglio ancora, completato e accompagnato – da una riformulazione dell’amministrazione e degli ordinamenti locali ispirato senza riserve al principio della sussidiarietà, che è un altro modo di dire responsabilità, dei pubblici poteri così come dei cittadini. Un’amministrazione sfrondata – anche grazie ad un organico processo di digitalizzazione – da inutili pratiche, dichiarazioni, certificazioni, che istituisca con la società un rapporto di fiducia e di delega all’iniziativa dei cittadini, che operi controlli a posteriori senza esigere interminabili iter preventivi, che semplifichi, riduca, accorpi  obblighi fiscali e previdenziali. E, parimenti, un impianto regionale fondato sull’autosufficienza fiscale, in cui si ricompattino le regioni esistenti fino a ridurle al massimo a 10 (da questo punto di vista è essenziale almeno la formazione di una macroregione del Sud continentale e di una della dorsale adriatica), e tutti gli enti risultanti da tale ridefinizione siano concretamente in grado di gestire servizi essenziali e livelli essenziali di prestazione attuando il criterio dei costi standard, senza cedimenti assistenzialistici.

Serve urgentemente, insomma, un’intelaiatura istituzionale solida e al tempo stesso agile, pensata per una società attiva. Una società che valorizzi l’iniziativa individuale e associativa, e che sia naturalmente portata a produrre in autonomia idee e soluzioni per l’organizzazione sociale, i servizi, la produzione, la cultura, la formazione.

 

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