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Lo Statuto dei lavoratori compie 50 anni. E non li porta bene. Il commento di Sacconi

Lo Statuto dei lavoratori compie oggi 50 anni. Lo chiesero con determinazione i socialisti riformisti quale impegno inderogabile della coalizione di centrosinistra. Il ministro del lavoro Giacomo Brodolini incaricò il professor Gino Giugni di elaborare un testo con cui generalizzare diritti allora riconosciuti solo ai lavoratori di alcuni perimetri contrattuali e disporre norme di sostegno alla libera contrattazione.

Nel disegno di legge del governo la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro, di cui al ben noto articolo 18, era limitata ai licenziamenti discriminatori perché nulli. Fu il Pci a volerla estendere a tutti i licenziamenti non sufficientemente giustificati, al posto dell’indennizzo, consegnando al giudice (in luogo dell’imprenditore) l’ultima parola sulle esigenze aziendali. Ciononostante, il Pci definì lo Statuto “una legge che autorizza i padroni a continuare a calpestare la Costituzione nei luoghi di lavoro”.

La Cisl, diffidente verso l’ingerenza della legge, ottenne che la negoziazione tra le parti sociali e i relativi accordi rimanessero in un ambito privatistico. Gli articoli 39 e 40 della Costituzione non trovarono attuazione perché considerati un retaggio del vecchio modello corporativo.
La riforma ebbe il limite di riflettere il dibattito degli anni ‘60, quando la crescita economica appariva irreversibile e al più frenata da brevi congiunture negative.

Le sue disposizioni, nonostante le correzioni intervenute, appaiono tuttora coerenti con la fabbrica fordista nella quale vigeva la tendenziale omologazione del lavoro. Non fu quindi una regolazione aperta agli scenari nuovi che si sarebbero presto manifestati con le crisi petrolifere e, più tardi, con le pressioni competitive indotte dalla progressiva liberalizzazione dei mercati.

Non a caso, fu poi la stessa corrente riformista che aveva voluto lo Statuto a riaprire la discussione sulle regole fondamentali del lavoro nel momento in cui si evidenziava il cambiamento dei presupposti sui quali erano state costruite. Il Libro Bianco di Marco Biagi del 2001 fu il primo documento di governo a ipotizzare esplicitamente la fine della legge 300/70 (e delle successive modifiche e integrazioni) per sostituirla con un essenziale Statuto dei Lavori.

In particolare, vi si riconosceva la pluralità dei lavori con la fine progressiva delle produzioni seriali e il superamento della tradizionale dicotomia tra lavoro dipendente e indipendente perché ogni prestazione si andava orientando a obiettivi e risultati. Ne discendeva l’idea di un nucleo di diritti inderogabili e applicabili a tutti con rinvio, per il resto, alla contrattazione. Specie di prossimità. Il documento individuò, soprattutto, la migliore tutela del lavoratore, in mercati imprevedibilmente mutevoli, nel diritto promozionale alla occupabilita’ attraverso l’accesso di tutti a continue opportunità di apprendimento teorico e pratico.

Le riforme che seguirono hanno agito al margine dell’impianto tradizionale e sono state spesso contraddette dal ritorno a disposizioni rigide come la cancellazione dei voucher, la restrizione del lavoro intermittente, l’eliminazione del lavoro a progetto, la necessità delle causali per i contratti a termine, la estensione della intera disciplina del lavoro subordinato a tutte le prestazioni indipendenti. Perfino l’utile regolazione del lavoro agile non ha affrontato il necessario adattamento del testo unico sulla salute e sicurezza ai luoghi liberamente scelti dal lavoratore.

Più innovativa è stata la norma che ha consentito alla contrattazione aziendale e territoriale di derogare a leggi e contratti nazionali con l’eccezione delle norme comunitarie. Non a caso è stata accusata di voler “destrutturare” il tradizionale diritto del lavoro nonostante, in silenzio, molti accordi siano stati sottoscritti per realizzare inevitabili flessibilità.

Ora siamo ad un bivio tra innovazione pragmatica e regresso ideologico in una stagione densa di incognite. I decisori istituzionali e sociali dovrebbero accettare di sottoporre le loro convinzioni (e azioni) alla prova dei numeri quali risultano dall’analisi dei big data di cui disponiamo. Non solo tassi di occupazione, ma anche reddito annuo da lavori, conto corrente contributivo, conoscenze acquisite, prestazioni sociali complementari, condizione del nucleo familiare.

Onorare lo spirito riformista dello Statuto significa adattarlo al mondo che cambia. È paradossale che oggi lo considerino intoccabile gli eredi di coloro che lo criticarono.

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