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La sanità come la Difesa, un asset strategico. Fabrizio Landi spiega perché

Sono molti gli interrogativi sul futuro dell’Italia, e del mondo, all’alba di questa nuova fase 2. Il coronavirus, che ha ormai portato alla morte di quasi 30mila persone solo in Italia e 250mila nel mondo, sembra poter essere sconfitto definitivamente solo con il vaccino e, nel frattempo, con l’utilizzo delle giuste precauzioni. Ma, secondo Fabrizio Landi, presidente di Toscana Life Sciences ed esperto di ingegneria biomedica e di elettronica biomedicale, potrebbero non essercene abbastanza per tutti. Non solo perché i numeri della domanda saranno molto più alti della capacità produttiva, ma in particolar modo nel nostro Paese a causa dei tagli alle risorse per la sanità pubblica e per la politica di delocalizzazione degli ultimi vent’anni.

Siamo finalmente giunti alla fase 2. Cosa cambia, da un punto di vista tecnico-sanitario?

Innanzitutto la disponibilità di test diagnostici, molto più alta che nella fase 1. Questo farà una prima differenza importante.

Come li useremo, dunque? Ne abbiamo per tutti?

Partiamo dal presupposto che come tutti i Paesi, chi più chi meno, abbiamo sofferto e probabilmente soffriremo ancora una mancanza di test diagnostici, la cui domanda è enormemente più alta del normale. Ovviamente, nel caso italiano come in gran parte dell’occidente, la scelta di aver delocalizzato quasi tutte le produzioni relative in Oriente, non ci ha aiutati. Tra l’altro il nostro Paese, fino agli anni ’90, vantava una notevole produzione industriale nel settore, ma con i tagli alla sanità e il sempre maggior numero di gare basate esclusivamente sul criterio del prezzo più basso, hanno portato gli imprenditori a chiudere o a spostarsi a Est in Europa o in Asia.

Però in tantissimi si sono messi a produrre test diagnostici e tamponi così come, in ancor maggiori quantità, i famosi Dpi (mascherine e collegati), soprattutto nel Far East, ed è ripartita una ricerca/produzione italiana e occidentale, o sbaglio?

Certo, spesso però senza tener conto della qualità clinica necessaria, soprattutto in estremo oriente. C’è chi ha prodotto test che generavano un errore pari al 30% e le regioni li hanno anche comprati. La stessa Gran Bretagna ha ammesso di aver comprato 38 milioni di sterline di tamponi e li ha dovuti buttare via, perché il tasso di errore era elevatissimo.

E i test ultrarapidi?

Questi saranno molto utili per scoprire, come facciamo ad esempio oggi con l’epatite, se hai il virus e, se non lo hai, se l’hai già avuto.

Però sembra ci siano diversi pareri sull’utilità di questa informazione…

Il dubbio c’è sempre. Però la storia della medicina ci dice che, tendenzialmente, chi contrae un virus successivamente diventa immune per un periodo più o meno lungo e anche se è presto per dirlo, le più recenti pubblicazioni cinesi (dove ci sono persone guarite da mesi) ci danno conforto che questo sarà vero anche per l’immunità acquisita da Covid-19. Per cui, pur mantenendoci cauti, è molto più probabile che vada così che nell’altro senso.

Con la fase 2 potremo tornare alle nostre vite?

Assolutamente no. È fondamentale non confondere le fasi fra loro, e loro specifiche caratteristiche. Questo avverrà con la fase 3, se non addirittura successivamente. Finché non avremo la cura o il vaccino per tutti, il distanziamento sociale rimane fondamentale. E poi c’è il grande problema della capacità produttiva di cui parlavamo prima. E vale sia per i vaccini che per le cure. Ad oggi su scala mondiale produciamo fra i 200 e i 250 milioni di set vaccinali, e invece per fermare il coronavirus ne serviranno almeno teoricamente sino a 8 miliardi, uno per ogni abitante del pianeta.

Quindi il mondo sarà diviso fra chi potrà beneficiare del vaccino e chi no?

Non solo. Il mondo sarà diviso, con ricadute geopolitiche senza precedenti, fra i Paesi che avranno il vaccino e quelli che non lo avranno. Qualora la Cina dovesse arrivare per prima, ci metterà probabilmente almeno un anno e mezzo per vaccinare la propria popolazione e solo successivamente lo venderebbe agli altri Paesi (salvo che decida di condividere i frutti della sua ricerca). Ovviamente, tenendo conto di tutte le dinamiche a noi note. E lo stesso potrebbe accadere con gli Stati Uniti. Non si tratta di egoismo, è normale che un Paese vaccini prima i propri cittadini. Ma questo genererà conseguenze non indifferenti.

L’unica speranza, insomma, è che ci si arrivi tutti…

Come ha detto Bill Gates, in geopolitica i vaccini valgono più delle bombe nucleari. La sanità dovrebbe diventare un asset strategico al pari della Difesa e vantare le stesse garanzie. La tragedia che abbiamo vissuto, dovrebbe averci insegnato qualcosa.

Lei crede che per le mascherine avremo lo stesso problema?

Assolutamente sì. E non noi come Italia, ma tutti. Lei pensi a ogni singolo uomo o donna che, per uscire e lavorare, inclusi i lavoratori del Servizio sanitario avrà bisogno in media di 1-2 mascherine al giorno. Moltiplicato per 365 giorni e per 60 milioni di abitanti, se pensiamo solo all’Italia. Arriviamo a decine di miliardi di mascherine per il consumo annuo. È un numero spaventoso rispetto a un consumo che solo l’anno scorso era meno dell’1% rispetto al fabbisogno che raggiungeremo nella fase 2.

Però anche in questo caso l’Italia si è data da fare, in tanti hanno convertito la propria produzione…

Vero, ma qui sta all’Italia difendere il proprio mercato con delle garanzie, come ad esempio gare nazionali, come avviene in Cina, destinate solo alle aziende locali o comunque in ampia percentuale, non basate sul massimo ribasso come ahimè accaduto in questi anni (le ultime gare delle regioni del 2019 pagavano le mascherine chirurgiche 0,08 euro l’una, centinaia di volte meno dei prezzi di questi giorni). Perché avendo come criterio solo il prezzo, ancora una volta avremo spezzato le gambe al nostro tessuto produttivo.


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