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Sapere (per) fare. Il rettore del Politecnico di Torino spiega come cambia l’università

Per conseguire una nuova modalità di crescita, serve un avvicinamento tra centri di ricerca e imprese, con il supporto della politica. Ma non basta. A parlare è Guido Saracco, ingegnere chimico, da oltre due anni alla guida del Politecnico di Torino, una delle istituzioni accademiche più apprezzate in Europa, secondo cui serve il coinvolgimento delle persone, del grande magma sociale. In questa intervista con Formiche.net Saracco si sofferma su un nuovo modo di affrontare i grandi problemi del Paese che può partire da Torino, la città simbolo della nostra industria e della nostra impresa (qui l’intervista al sindaco Chiara Appendino), per poi replicare il modello intero su scala nazionale.

Rettore Saracco, il sindaco di Torino Appendino ha individuato i driver su cui impostare la rinascita di una città ferita, come tutta l’Italia del resto: innovazione, sostenibilità, opere. Che ne pensa?

Condivido, aggiungo che esistono delle dimensioni di sostenibilità che vanno prese in considerazione, soprattutto per la parte industriale. Oggi occorre un modo nuovo di costruire ricchezza dentro e fuori la città e anche un modo nuovo di distribuirla. La crisi ha aumentato la distanza tra la parte povera della città e quella più ricca, con quest’ultima che non ha re-investito nel territorio. Questo è un difetto, in questa città c’è una scarsa propensione a investire in qualcosa di nuovo, perché c’è una tradizione industriale forte e radicata.

C’è ancora margine per cambiare rotta?

Sì, però dobbiamo partire dal basso. Dobbiamo imparare a ripensare gli investimenti per il futuro, con un po’ di coraggio, dobbiamo rischiare.

Proviamo a indicare una ricetta su misura per Torino…

In realtà quello che vale per Torino può tranquillamente valere per il Paese intero, in modo trasversale. Per conseguire una nuova modalità di crescita, serve un avvicinamento tra centri di ricerca e imprese, con il supporto della politica. Ma non basta, serve il coinvolgimento delle persone, del grande magma sociale. Serve uno sforzo di tutti gli attori in campo. Penso alle Fondazioni bancarie, penso ai sindacati, organismi che stanno cambiando perché non possono più rimanere ancorati al passato.

E la politica? Non può certo sottrarsi alle sue responsabilità…

La politica, come l’università, non deve più cullarsi nella propria autoreferenzialità, deve applicarsi, deve mettersi in gioco, spendersi. Questo vale per tutti, ovviamente. Per il mondo accademico e per chi governa. Così come vorrei che i miei ingegneri diventino più creativi, per risolvere con la tecnologia i problemi della società, vorrei che anche i nostri politici imparassero a conoscere meglio la tecnologia. Senza una vera alfabetizzazione tecnologica la politica stenta ad amalgamarsi alla società. Perché se la politica non comprende la società e la società non comprende la politica si va incontro a crisi di rigetto reciproche.

Lei rappresenta un’eccellenza italiana, ma non solo. Che cosa può fare il Politecnico per una nuova economia, più inclusiva, senza dubbio?

Potremmo insegnare ai politici delle tecnologia, così che possano essere ben consci dei suoi vantaggi. Se la nostra classe dirigente avesse un po’ più di competenza tecnologica non sarebbe male, perché la tecnologia sta sconvolgendo tutto. Il Politecnico si è dato da tempo la missione di cambiare l’impatto sociale, lo stanno facendo anche altre grandi università.

Un esempio?

Abbiamo dato origine a un progetto che prevede la messa a fattor comune della ricerca con i corpi sociali. Una sorta di parco, dove unire imprese, startup, formazione. E poi stiamo lavorando al settore auto. Si chiamano comunità di innovazione, e ne abbiamo per l’auto a Mirafiori e a Corso Marche per l’aerospazio. Poi ci sono anche parchi dell’innovazione sulla sostenibilità e l’economia circolare. Una volta che mettiamo insieme tutti gli attori, non c’è cosa migliore per un’impresa di andare alla fonte a rifornirsi di sapere e innovazione.

Un modello vincente… da esportare.

Assolutamente sì, però ogni contesto e a sé. Se andiamo fuori da Torino abbiamo l’agroalimentare a Cuneo, o il tessile a Biella. In altre regioni ci sono altri ecosistemi per l’innovazione. Diciamo che stiamo imparando una lezione: l’università non deve più essere un corpo esterno alla società e alla politica ma qualcosa che ne faccia parte. Però questo avviene se si lavora tutti insieme.

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