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Ilva, cosa sta succedendo dentro e fuori lo stabilimento di Taranto

Nuove tensioni si accendono nel grande stabilimento dell’Ilva a Taranto gestito da Arcelor Mittal. Questa mattina molti operai, giunti agli ingressi nel sito per il proprio turno di lavoro, hanno trovato disattivati i loro badge, perché erano stati posti in cassa integrazione da ieri sera, senza averlo appreso in tempo per non recarsi così in fabbrica. Il direttore del personale si è giustificato affermando che le lettere di comunicazione della cig ai diretti interessati erano partite solo nella tarda serata e che pertanto il disservizio è stato quasi inevitabile.

Ma anche questa vicenda sta alimentando un crescente stato di tensione nella fabbrica che ha continuato a produrre anche nelle settimane del lockdown, pur non avendo potuto vendere per alcuni giorni i suoi coils per decisione prefettizia. Un impianto quello ionico nel quale tuttavia, a causa della brusca caduta di commesse anche sui mercati internazionali, la produzione è stata portata ad un livello minimo, considerato però dal gestore necessario per non danneggiare i macchinari sui quali, intanto, sono stati sospesi gli interventi per l’attuazione dell’Aia e sui quali anche le aziende dell’indotto hanno visto ridursi i loro interventi, nel mentre attendono ancora il saldo di fatture emesse per lavori già eseguiti da tempo.

Certo, Arcelor ha ridotto la produzione anche in altri suoi stabilimenti in Francia e Spagna a causa del rallentamento dell’economia europea e mondiale, ma la situazione a Taranto – già da anni molto ma molto complessa per le fin troppo note problematiche ambientali e sanitarie – è ulteriormente aggravata dall’incertezza sul futuro assetto proprietario dell’intero Gruppo, tuttora posseduto dall’amministrazione straordinaria che con l’attuale gestore – dopo un durissimo scontro che divampò fra le parti a novembre scorso con accuse reciproche di inadempienze nel rispetto di condizioni previste nel contratto di affitto finalizzato all’acquisto – ha poi definito dinanzi al Tribunale di Milano un accordo secondo cui entro novembre 2020 Arcelor potrebbe anche rinunciare all’acquisizione dell’intero compendio impiantistico, versando una penale di (soli) 500 milioni di euro.

Nell’ultimo scorcio dello scorso anno poi è sopravvenuto il cambio del top management del Gruppo con la sostituzione di tutta la prima linea di comando nominata a suo tempo da Arcelor, con nuovi dirigenti guidati da Lucia Morselli che, in realtà, in questo scenario teso e confuso starebbe giocando una partita tutta personale perché, in caso di ritiro definitivo dei franco-indiani, punterebbe a restare alla guida dell’Ilva, anche con un nuovo azionariato che, almeno nelle intenzioni del governo, dovrebbe portare ad un forte ingresso nella compagine sociale di capitale pubblico, da impegnarsi – sperabilmente con altri partner privati – in un riassetto profondo del Siderurgico ionico in cui si avvierebbero anche produzioni da forno elettrico mediante impiego di preridotto di ferro.

Come si vede, è una situazione in pieno movimento e di forti tensioni quella nel e fuori del Siderurgico tarantino, sempre assediato dagli ambientalisti che ne chiedono la dismissione coatta, e la cui attuale gestione è ormai attaccata con quotidiana sistematicità dal sindaco del capoluogo che ha esplicitamente chiesto ad essa di lasciare lo stabilimento. Si aggiungano le proteste sempre più dure delle aziende dell’indotto che sono in credito ad oggi di circa 40 milioni, e le comprensibili diffidenze delle banche che non vogliono più scontare le fatture emesse dai subfornitori ad Arcelor, temendone ormai apertamente il mancato soddisfo.

Allora è giunto il momento che il ministero dello Sviluppo economico riprenda a seguire con costanza e assoluta determinazione lo svolgersi dell’intera vicenda, che acceleri insieme al Mef sui nuovi assetti societari ed impiantistici della fabbrica, e che ne riferisca in Parlamento che, a sua volta, nei suoi due rami dovrebbe impegnare le competenti commissioni a svolgere audizioni con Arcelor, i commissari straordinari, Federacciai, sindacati, banche, Invitalia, ed ogni altro soggetto pubblico e privato che sia ritenuto potenzialmente interessato ad una ormai irrinviabile soluzione di una vicenda che si trascina dal 26 luglio del 2012, quando venne posta sotto sequestro senza facoltà d’uso l’area a caldo dello stabilimento che, non ci stancheremo di ricordarlo, è la più grande fabbrica manifatturiera d’Italia con i suoi 8.277 addetti diretti e resta uno dei pilastri del sistema industriale del Paese.

 



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