La pandemia da Covid-19 ha innescato una crisi o, per meglio dire, un vero e proprio collasso del prezzo del barile, dai circa 60 dollari di poco prima dell’arrivo del coronavirus agli attuali 20. Con picchi verso il basso, prima della fine dell’aprile di quest’anno, ancora significativamente più bassi dei venti che oggi si verificano in media.
Ovvia l’origine del crollo dei prezzi, che è la sostanziale chiusura delle economie dei Paesi compratori e, in particolare, la forte crisi del mercato dell’automobile, con il lockdown, peraltro, di tutta la mobilità, pubblica e privata. Peraltro, per molti Paesi produttori, venti dollari a barile è un prezzo ben al di sotto dei break-even-point e talvolta dello stesso puro costo di produzione.
55-60 dollari a barile è meno del costo dell’estrazione del petrolio in Artico, per esempio, meno di quello necessario al pareggio delle produzioni europea e brasiliana di biofuel, ma anche dello shale oil statunitense e canadese, in Gran Bretagna il costo del barile è poi di 52,50 dollari, ma in Arabia Saudita, ricordiamolo, il costo della produzione del barile è ancora di circa 10 dollari.
Ma Rihad ha anch’essa bisogno di prezzi ben più alti, almeno dagli 80 dollari in su per barile, per riequilibrare il suo budget pubblico, investire seriamente nella diversificazione produttiva, senza nemmeno citare, qui, la tenuta sociale dei sauditi e, per altri versi, quella della Federazione Russa.
La domanda mondiale è quindi precipitata, con una riduzione di 29 milioni di barili al giorno, dai 100 e oltre di un anno fa. Peraltro, ciò significa che è arrivata al massimo della saturazione la capacità di stoccaggio, con Paesi che vendono direttamente in mare, per evitare i costi, pesanti e imprevedibili, dell’eccesso di produzione e, ormai, anche a prezzi da trattativa privata al ribasso.
Secondo alcuni analisti specializzati, il petrolio cadrà di produzione di almeno 9,3 milioni di barili l’anno, fino all’anno in cui la epidemia di coronavirus non cesserà in modo significativo. Ma è una previsione molto ottimistica. Gli effetti maggiormente prevedibili del crollo dei prezzi petroliferi saranno, con ogni probabilità, e già lo vediamo, la bancarotta delle compagnie petrolifere piccole e medie in Usa e Canada, dove peraltro le banche avevano fortemente sostenuto, a debito, queste aziende.
Le ripercussioni economiche, finanziarie, sociali sul resto del sistema produttivo di quei Paesi saranno immediate e tutt’altro che facili da gestire. Qualche estrazione di imprese “zombie” Usa e canadesi è continuata, per fare liquidità immediata, ma, ovviamente, la cosa non può non durare molto poco. Di sostegno pubblico alle imprese petrolifere è difficile parlare, data la loro struttura societaria internazionale e, soprattutto, a causa della grande massa di liquidità di cui ci sarebbe forte bisogno, che sarebbe inevitabilmente tratta da altre poste di bilancio, socialmente più necessarie e a forte impatto psicologico e, quindi, elettorale.
Ma tutta l’economia, sia dei Paesi produttori che di quelli tipicamente consumatori, che non hanno mai formato, per varie scelte sbagliate o a breve periodo, una loro Opec, sarà posta duramente in crisi dalla caduta verticale dei prezzi petroliferi, anche se la Iaea Usa ha sostenuto e legittimato il taglio alla produzione dell’aprile scorso, segno iniziale di un inevitabile, in futuro, accordo tra produttori e consumatori. Anche finanziario e di investimenti. Alcuni Paesi produttori hanno, poi, notevoli fondi finanziari per poter resistere, probabilmente anche fino alla fine della pandemia, alla caduta del prezzo del barile, ma altri produttori certamente no.
Sauditi, Uae e Kuwait possono durare relativamente a lungo, pur bloccando a breve termine i loro progetti di espansione economica e di diversificazione. Si pensi qui al piano saudita Vision 2030. Iraq, Iran e Venezuela, con l’Iraq che è oggi tra i nostri maggiori esportatori, avranno certamente da sostenere periodi di estrema crisi sociale e perfino di legittimità politica.
In Africa, Nigeria e Libia avranno ulteriori crisi politiche e sociali di imprevedibile gravità. Oltre alle guerre intestine per interposta persona, come in Libia. La stessa Cina, la maggiore compratrice di petrolio, oggi, ha bloccato ben 10 invii di petrolio via mare dall’Arabia Saudita.
Il break-even point, ma quello fiscale, è rivelatore di complesse dinamiche interne ai produttori: quello saudita è a ben 91 dollari, l’Oman è a 82, quello di Abu Dhabi è a 61 dollari, il Qatar è a 65, il Bahrein è a 95 dollari, l’Iraq a 60 ma, è bene notare, l’Iran è oggi a ben 195 dollari, l’Algeria è a 109, la Libia a 100, per quanto possa funzionare l’export petrolifero libico dopo la chiusura dei pozzi da parte di Haftar, la Nigeria a ben 144 dollari, ma l’Angola si ferma a un costo+fisco al barile di 55 dollari.
La Russia ha oggi un forte bisogno di un barile-fisco di almeno 42 dollari, il Messico di 49, il Kazakhistan di almeno 58 dollari a barile. Per sopravvivere, le imprese petrolifere Usa, canadesi e norvegesi hanno bisogno, rispettivamente, di 48, 60 e solo 27 usd per la Norvegia, di costo del barile, per andare semplicemente in pari con i costi.
La Russia, probabilmente, potrà sopravvivere (Mosca dice, forse esagerando, “per dieci anni”) a una crisi da pandemia, che ha colpito duramente anche la propria popolazione, utilizzando il suo Fondo Strategico, che vale oggi 124 miliardi di dollari. Ma è probabile che ogni anno di crisi costerà, alla Russia, dai 40 ai 50 miliardi di dollari. Per non parlare dei posti di lavoro, che potrebbero decurtarsi, sempre in Russia, di oltre un milione.
I sauditi sono anch’essi molto liquidi, prevedendo, alla fine della pandemia, una perdita di oltre 45 miliardi di dollari. Se Rihad fa ancora un accordo con la Russia e riesce a portare il barile a 40 dollari, dovrebbe ridurre le perdite a 40 miliardi di dollari annualmente.
L’Iraq, il secondo maggiore esportatore mediorientale, deriva la sua spesa pubblica, per il 90%, dalle entrate petrolifere. In Iran e Iraq, la chiusura delle imprese private ha causato la quasi totale chiusura, da marzo, della produzione petrolifera stessa.
L’Iraq non ha fondi sovrani, peraltro. Il Messico ha già poi iniziato misure di “austerità”, pur dichiarando che non ci saranno chiusure o riduzioni di personale nel settore pubblico. Il Pil nigeriano andrà certamente sotto zero, ed era l’economia a maggiore sviluppo del Pil, in Africa, ma oggi con 50 milioni di barili invenduti, da maggio.
Il tasso di disoccupazione andrà dal 25%, fino a ben oltre i 25 milioni di persone, ma la Nigeria ha un piccolissimo Fondo Sovrano che possiede 2 miliardi di dollari. Tra i Paesi produttori le differenze non potrebbero essere più vaste: nazioni con una potenza finanziaria potenzialmente capace di resistere ulteriormente al crollo dei prezzi petroliferi, Paesi con una situazione sociale ed economica interna vicina al collasso, nazioni con una situazione economica in fortissima crisi.
Si pensi al Libano, che ha già dato default prima della caduta dei prezzi petroliferi. E che certamente l’Arabia Saudita non aiuterà più, e nemmeno l’Iran, ovviamente. Questo significa che i Paesi produttori con una situazione finanziaria più “liquida” possono iniziare a comprare asset petroliferi e non a bassissimo costo, anche dai loro colleghi-concorrenti dell’Opec, o anche fuori da quel quadro protezionistico Opec, mentre i Paesi senza liquidità, né a lungo né a breve, saranno rapidamente colonizzati economicamente dai più forti, che renderebbero irrilevante la loro autonomia economica.
Soprattutto se si tratta, come l’Iraq, di paesi davvero oil dependent. Il Pil per l’anno in corso dovrebbe comunque cadere di poco in Kuwait (-1%) mentre l’Algeria e l’Iraq andrebbero subito a un -5%, che potrebbe essere esiziale, lo ripetiamo, non solo per la loro economia ma anche per la loro stabilità sociale. La Libia, tanto per ricordarci di un Paese-chiave per la nostra sicurezza, oltre che per il petrolio, avrà una caduta prevista del Pil di quasi il -58%.
Facile capire cosa succederà, e quanto impatto avrà in Italia. Il Fondo Monetario Internazionale ha inoltre previsto un rapido rebound dei prezzi oltre il break even point petrolifero per tutta l’area petrolifera tra Africa e Medio Oriente già nel 2021, ma la previsione sembra del tutto destituita di fondamento, vista la durata almeno poliennale della crisi dei compratori e quindi della inevitabile caduta dei prezzi dei produttori.
Anche se la crisi da coronavirus finisse tra un mese, cosa del tutto improbabile, la prospettiva economica, anche per il 2021, non cambierebbe radicalmente. Il fatto è che il Pil dei Paesi non-produttori cadrà addirittura più velocemente, secondo tutte le proiezioni più affidabili, di quello dei Paesi produttori di petrolio.
Certo, c’è il temporaneo ristoro dei conti pubblici dei Paesi Mena (Middle East and North Africa Countries) non-produttori, che dovrebbe essere calcolato intorno al 3-4% del loro Pil, ma si tratta di Paesi come il Marocco e la Giordania, di scarso peso economico nei loro rispettivi quadranti geo-economici. C’è anche un altro conto da fare: la crisi dei Paesi produttori si interseca con la forte crisi, che dura da molto più tempo, dei Paesi africani esportatori non di petrolio, ma di prodotti alimentari.
E qui ci riferiamo alla Giordania, ancora, alla Mauritania, al Marocco, ancora leader della produzione mondiale di agrumi, con società in collaborazione con gli Usa, e alla Tunisia vitivinicola.
L’indice Fao per lo zucchero è caduto come mai dopo 13 anni fa, al -14,6%. Sempre l’indice Fao per l’olio vegetale è al -5,2%, i prezzi dei prodotti lattiero-caseari cadono oggi del 3,6%, quelli delle carni del 2,7%, ma il grano dovrebbe rimanere stabile, nei prezzi, anche se aumenterà lo stoccaggio e quindi il futuro costo finale d’ora in poi. Certo, i Paesi produttori “ricchi”, ovvero dotati di maggiori riserve di liquidità, hanno già iniziato a fare iniezioni di liquidità e sconti fiscali.
I sauditi hanno triplicato l’Iva dal 5 al 15%. E hanno emesso 7 miliardi di usd di titoli di debito pubblico che matureranno in 5, 10 e 40 anni rispettivamente, con una restrizione prevista della spesa pubblica del 5%, ben 13,3 miliardi di dollari in sostegno alle piccole e medie imprese, con la nazionalizzazione, poi, di 14.000 posti di lavoro nei settori tecnologicamente più evoluti. Questo, tanto per fare un esempio, riguardante la più capitalizzata nazione esportatrice di petrolio.
Non è nemmeno detto che, presto, i fondi sovrani sauditi e emiratini non si vogliano andare a prendere, a prezzo di realizzo, anche le industrie Usa e canadesi di shale oil in crisi più evidente. Gli investimenti, sia nei Paesi in crisi, che in quelli con maggior “polmone” finanziario, saranno ben diversificati, o nel business della salute o nelle grandi infrastrutture, ma non saranno certo del tutto dimenticati quelli nella ricerca e nella espansione del settore petrolifero, che certamente riprenderà a lavorare, come e forse più di prima, alla fine della pandemia.
Ci sarà, probabilmente, un riequilibrio economico e finanziario tra gli Usa e l’Arabia Saudita, che hanno interessi simili: nell’acquisto delle aziende di shale oil in crisi, ovviamente, ma anche in un rapporto diretto finanziario più stretto, visto che l’Arabia Saudita detiene, ancor oggi, 177 miliardi di usd di titoli del debito pubblico nordamericano. Un record, ma che potrebbe aumentare rapidamente.
Ovvio che, nel momento più buio della crisi, l’obiettivo dei Paesi finanziariamente solidi dell’Opec sarà quello della diversificazione, dal petrolio, in settori più tecnologicamente evoluti e in maggior espansione, come per esempio la salute e la farmacologia. Soprattutto all’estero. Ma, ripetiamo, senza dimenticarsi del petrolio. Pur mantenendo, ricordiamo, lo stesso investimento attuale, o quasi, nel settore petrolifero, che non potrà non ripartire a breve-lungo periodo.
Per gli altri Paesi, con meno solidità finanziaria, si tratterà o di fare delle grandi riforme politiche, che almeno stabilizzino i Paesi in fase di pesante crisi economica, o di farsi vendere, e rapidamente, i loro assets petroliferi dai Paesi arabi più ricchi, che così avranno, all’inizio della recovery petrolifera, un ben maggiore potere di pressione nei confronti dei Paesi consumatori.