Mentre è ancora impossibile fare previsioni sui tempi del superamento dello shock sanitario ed economico, è chiaro che il modo di far ripartire la crescita non sta in un ritorno al passato precrisi. Il modello economico del primo ventennio del secolo si è dimostrato incapace di generare crescita e benessere per la maggioranza della società, e lo shock gli ha inferto colpi traumatici tali da costringere i governanti a modificare alcuni paradigmi di sistema, benché temporaneamente.
Le procedure per l’acquisto di beni e servizi essenziali sono state sveltite, il lavoro a distanza si è diffuso, laddove possibile, tra le imprese e pure in alcune parti della pubblica amministrazione, l’istruzione a distanza, l’e-learning, è stata incoraggiata, la digitalizzazione del sistema di istruzione potenziata con nuovi stanziamenti, il credito alle pmi ampliato attraverso più estese garanzie pubbliche, la rete di sicurezza per i lavoratori tenuti a casa si è ampliata, gli oneri tributari e contributivi diluiti nel tempo, e si sta lavorando alla semplificazione degli appalti pubblici.
Non mancano i rischi per altre misure, che potrebbero trovare applicazione per lunghi periodi anche dopo la fase acuta della crisi sanitaria. Ne sono esempi, il blocco dei licenziamenti anche nelle piccole imprese, l’ingresso del soggetto pubblico nel capitale delle imprese, il rinvio delle dichiarazioni di fallimento, la stasi nelle attività giudiziarie, etc.
Nel complesso si è giustamente mirato a proteggere la salute pubblica e al contempo allentare rigidità di sistema ben radicate, nel tentativo di ammortizzare l’impatto della crisi. Questa, tuttavia, sta incidendo profondamente nel tessuto produttivo producendo ferite difficilmente rimarginabili. Nel primo trimestre si stima che si sia perduta la quasi totalità della produzione dei servizi soggetti al blocco sanitario, analogamente per l’attività edile, un 6% di quella manifatturiera e un’ingente quota dell’export, che inducono a prevedere una caduta del prodotto interno del 5%.
Le catene internazionali del valore sono a rischio per il divergente andamento delle attività produttive tra Paesi, con alcuni già in fase di ripresa e bisognosi di componenti dall’estero. Molte imprese, e non solo le piccole, probabilmente non sopravviveranno allo shock a causa della debolezza delle loro strutture. Le occasioni per nuova occupazione languiranno anche per effetto dell’impulso che la crisi ha dato al modello “impresa 4.0”.
Nei prossimi anni i comportamenti di imprenditori, famiglie ed investitori muteranno significativamente anche per un effetto di trascinamento degli atteggiamenti innescati dal prolungato rischio della pandemia. Ad esempio, è improbabile che gran parte della perdita di produzione particolarmente nei servizi quali turismo, trasporti, servizi ricettivi e ristorazione, possa essere recuperata in tempi brevi.
Prenderanno piede nuovi tempi e modi di lavoro e di business sia per i rischi sanitari, sia per l’avanzamento tecnologico. Le catene transnazionali del valore tenderanno ad accorciarsi, si incentiverà il rimpatrio di produzioni essenziali, continuerà il protezionismo strisciante che si è visto dalla crisi del 2009 in poi, e le banche saranno sempre più restie a concedere finanziamenti alle pmi senza garanzia pubblica a causa del loro eccesso di leverage finanziario.
Nel frattempo, la classe politica si accapiglia per chiedere nuovi consistenti fondi all’Ue e ai mercati finanziari senza una visione d’insieme sulla loro destinazione per un futuro migliore. Le uniche certezze per ora sono gli impieghi per finalità assistenziali verso i colpiti dalla crisi e l’ennesimo richiamo agli investimenti in infrastrutture per cui si propongono procedure più semplici ed accentramento della programmazione (vedasi documento della Presidenza del Consiglio).
Si trascura, invece, che i nuovi consistenti prestiti richiesti andranno ripagati e quindi dovranno essere impiegati soprattutto per rilanciare la crescita attraverso maggiore produttività del lavoro, degli investimenti e del capitale. In ultima istanza, bisognerà crescere a ritmi attorno al 3% annuo, esportare più beni e servizi, compresi quelli turistici, ed importare più capitale di rischio per investimenti diretti oltreché per quelli di portafoglio.
È quindi imperativo che l’economia e il Paese accettino radicali cambiamenti per riuscire ad avviare il motore della crescita da lunghi anni inceppato. Superata la fase critica dell’epidemia, occorre abbandonare la via dell’assistenzialismo ed avanzare, invece, su quella intrapresa temporaneamente dell’allentamento di restrizioni e rigidità deleterie, ad esempio, nella concorrenza, nel lavoro, nelle opere pubbliche, nella giustizia e nella burocrazia.
Si tratta di continuare nelle riforme di sistema che modifichino l’allocazione delle risorse produttive per accelerare il rinnovamento tecnologico delle imprese, migliorare le competenze per i nuovi lavori e facilitare la riallocazione del lavoro tra settori ed imprese, offrire servizi pubblici efficienti e a costi competitivi, snellire regolamentazione e burocrazia, promuovere concorrenza ed innovazione, diffondere la digitalizzazione, e soprattutto dare impulso alla imprenditorialità creando un ambiente favorevole alla competitività dell’impresa.
Questa è l’essenza della nuova politica industriale, che non deve proteggere il passato industriale o posti di lavoro insostenibili nella concorrenza di mercato, ma sostenere l’emergere di un tessuto di imprese innovative, meno gravate da inefficienze ed ostacoli a loro esterni. In particolare, una politica che ponga fine all’eccesso di norme, alla lentezza ed onerosità della giustizia, a un regionalismo che spezza l’unità economica del Paese e ne moltiplica i costi, a un’insicurezza nell’operare sul territorio, alle posizioni dominanti sui mercati e nei servizi a rete vitali per il Paese. Non bisogna sottovalutare le potenti forze ostili al cambiamento che si avvantaggiano dello status quo, ma il cambiamento va portato avanti con determinazione, ben sapendo che se non si avanza il Paese rischia di scivolare nel sottosviluppo, sia che rimanga nell’Ue, o che se ne vada.