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Danno erariale, grandi implicazioni per una soluzione troppo piccola

Azzerare la colpa grave nel danno erariale (senza neppure considerare l’idea alternativa di ripensarla, anche innovativamente), ha molte implicazioni e molti effetti. Ne occorre piena consapevolezza, da parte di tutti. É materia delicata, e ogni scelta che si compie, al riguardo, va dritta al cuore del funzionamento della macchina pubblica, incidendo sull’intero sistema.

Fra gli effetti (non semplicemente prevedibili, ma scontati) di una possibile scelta legislativa abdicativa sulla colpa grave (anche se formalmente “vestita” da sospensione), c’è anche la dispersione, irrimediabile, della differenza e della distinzione fra i dirigenti pubblici onesti e capaci (perché l’onesta’ certo non basta), e ….gli altri. Se fare presto e bene viene, nella sostanza, trattato come fare tardi e male, perché un dirigente pubblico si dovrebbe affannare a seguire la prima via?

Un Paese ancora oggi ossessionato (e diciamo pure, reso ossessionato) dal feticcio della corruzione (pubblicamente e anche un pò ostentatamente agitato, deprecato, ma anche, a tratti, persino singolarmente “celebrato” attraverso serie televisive dagli ambigui e controversi esiti planetari), al punto di averne fatto il centro gravitazionale di una sorta di monoteismo laico “al contrario”, puo’ permettersi di smettere di distinguere? Ed è lecito, molto lecito, fortemente lecito, dubitarne. Si può forse cambiare (con senso della misura e, insieme, dei tempi) modo di farlo, ma non si può semplicemente smettere di distinguere.

Ripeto quanto già detto in altre sedi: senza l’apporto della miglior (e maggior) parte della dirigenza pubblica (circa 22mila unità in totale, a fine 2018), questo Paese – che dopo anni di non crescita ha davanti non la prospettiva ma la certezza di una caduta di Pil a due cifre – non si risolleva e non va da nessuna parte. Piaccia o non piaccia, le cose stanno cosi.

La cosiddetta paura della firma è un dato di fatto, oggettivo. Non è novità di oggi, tuttavia, e ciononostante la parte migliore e maggiore della dirigenza pubblica non ha, negli anni, smesso di “firmare”. Ha firmato forse per incoscienza? No, ha firmato nella precisa consapevolezza del suo essenziale ruolo nella Storia, oggi, del quale sono corollario (per i soli casi di devianza) anche le responsabilità previste dal sistema normativo vigente. Si firma, in generale, troppo poco? Forse, ma non è neppure scontato che quando si firma si firma sempre …”bene”. Talora, infatti, si firma “male”.

É sostenibile che se si firma poco è tutta e solo colpa di circa 100 pm contabili (nell’intero Paese) cui è affidata la ricerca della colpa grave? Dubitabile.
E 22mila dirigenti pubblici sono tutti indistintamente attanagliati e paralizzati dalla sola paura della danno erariale da colpa grave? In 22mila, in tutt’Italia, tutti i giorni, tutti gli anni?

Il tema è di livello sistemico, e non ci si può perciò accontentare di un pensiero “debole”. Ci serve viceversa un pensiero forte, coraggioso, laico, modernista, non semplificatorio, consapevole fino in fondo di pregi e difetti, tanto del “vecchio” quanto del possibile “nuovo” modello. Proviamo a capovolgere il paradigma, e domandiamoci se la sospensione della colpa grave avrebbe l’effetto, oltre che di far impennare davvero il numero delle decisioni pubbliche (e i veti incrociati fra amministrazioni? E le pressioni della politica? E le resistenze dei territori? e il tanto altro ancora quotidianamente deprecato? tutto sparito, d’incanto?), di renderle del livello che il Paese si attende e si merita. Ci serve “una” firma (qualsiasi), oppure “la” firma (quella migliore possibile)?

Tutto è perfettibile, ma la differenza fra una cosa perfezionabile (colpa grave compresa) e una cosa sorpassata resta e deve restare ben ferma. Privarsi (all’esito di analisi un pò frettolose, e senza neppure considerare ipotesi conservativo-sviluppative) del sistema della colpa grave non è cosa che va nella direzione di tutelare i capaci onesti, che vanno non solo difesi ma, prima ancora, riconosciuti. Perché, come dice Papa Francesco, “siamo tutti peccatori, ma non siamo tutti corrotti”.

In un presente fatto di grande complessità, la Corte dei conti deve misurarsi con la consapevolezza, che essa deve avere, e saper coltivare con costanza, che oggi amministrare la cosa pubblica è una sfida difficile. E che occorre, anche per questo, tenersi equidistanti – sempre – dal buonismo irresponsabile così come dal facile giustizialismo.

Il giusto mezzo, questo ci occorre, affinché si riesca nell’obiettivo di far rispettare le regole senza scoraggiare i capaci onesti. Perché, voglio dirlo con chiarezza, la notizia è che in tempi cupi come quelli che stiamo attraversando, in cui si odono senza sosta – sui giornali e negli atti giudiziari, nei caffè e nei dibattiti pubblici, nelle aule consiliari e nei luoghi dell’associazionismo – le parole (e tante altre del tutto simili), gli onesti ci sono ancora. E sono tanti. Senz’altro, la maggioranza.

È da loro che dobbiamo ripartire, è a loro che non dobbiamo far perdere la fiducia, è con loro che giornali, operatori della giustizia (ad iniziare dalla magistratura), categorie produttive e cittadini, devono schierarsi in modo risoluto e aperto, perché abbiamo bisogno di tanti amministratori e tanti dirigenti all’altezza delle sfide che dinamiche globalizzate e complesse ci pongono ogni giorno. Non concedo nulla alla retorica, dicendo questo, è solo cruda verità. Senza di loro, senza il loro porsi, in concreto, come persone “del fare”, ogni mattina, nei luoghi di lavoro, laddove c’è da prendere una decisione, le nostre comunità (tanto quella nazionale quanto quelle territoriali), si terranno i problemi che hanno e li vedranno anzi aumentare.


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