Simon (Bruce Davison) Linda (Kim Darby) si conoscono durante l’occupazione degli uffici del presidente (del consiglio di amministrazione) dell’università. Gli studenti hanno dato avvio all’occupazione perché il cda dell’università, con l’accordo de rettore, ha deciso di vendere i terreni in affidamento, destinati dall’amministrazione cittadina a una scuola per bambini e ragazzi della comunità afroamericana, all’esercito, che intende edificare edifici per la scuola sottufficiali di complemento (ricordiamoci che il presidente è Richard Nixon e siamo in piena guerra Vietnam). Durante l’occupazione molti giovani cercano di avere, è naturale, delle storie d’amore.
Tra questi c’è Simon, dedito al canottaggio, appassionato filmmaker, che aderisce per filmare, con la sua 8mm, l’evento. Incontra Linda, dal faccino da adolescente, convinta “occupatrice”, parlano, parlano, e lui se ne innamora. Simon, non convinto dell’occupazione, decide, comunque, di rimanere “dentro”, per Linda. Lei, impegnata sentimentalmente, è indecisa, prima sembra accettare la corte del biondo Simon, ma poi lo lascia. Improvvisamente, nel sottofinale ritorna da lui.
I ragazzi dormono, discutono, si organizzano, si riuniscono, negli uffici; qualche coppietta approfondisce la conoscenza biblica nei ripostigli o tra le cassettiere dell’ufficio amministrativo (accade proprio a Simon, con una bionda attivista che lo “premia” con un rapporto orale per il suo impegno politico). Il finale, con l’irruzione della Guardia Nazionale e l’uso dei lacrimogeni a cannone, nonché la perversa soddisfazione di pestare a manganellate gli inermi ragazzi che oppongono una resistenza pacifica, ancora oggi mantiene intatto il suo ineccepibile messaggio pacifista. I ragazzi, seduti in cerchi concentrici sul pavimento dell’ampia palestra cantano in coro Give Peace a Chance, ritmando la canzone con le mani sul parquet di legno; la scena, anche per la sua originalità iconica, è indimenticabile.
L’originale titolo del film Strawberry Statament (lett. “Dichiarazione delle fragole”) si riferisce a una affermazione del rettore, riportata dal compagno di stanza e di squadra di canottaggio di Simon, Charlie (Danny Goldman), all’inizio del film: “Per il rettore, dirgli che noi abbiamo una opinione (sull’università, ndr) è come dirgli che ci piacciono le fragole”. Stuart Hagmann, traducendo in film il romanzo di James Kunen, il cui titolo è “Fragole e sangue: diario di uno studente rivoluzionario”, portava nel nuovo cinema americano degli anni Settanta non solo il tema della contestazione generazionale (vedi “Easy Reader” di Denis Hopper, uscito dodici mesi prima di “Fragole e sangue”) ma anche quella freschezza stilistica di autori quali Richard Leacock, John Cassavetes, e Robert Altman.
All’uscita del film la critica di sinistra rimproverò ad Hagmann d’aver edulcorato il tema della battaglia politica, a favore di storie sentimentali, più volte “ridotta” a semplici slogan di protesta, come “la violenza è americana come il chewingum” (gridato da un ragazzo afroamericano), “per fare la rivoluzione bisogna occupare l’università in nome del popolo” (gridato da un wasp), “studia, mangia uccidi per mamma” (contro la guerra in Vietnam: mai citata per evitare una eventuale censura).
In effetti, Fragole e sangue prevedeva la tipologia di gran parte delle contestazioni studentesche che si succederanno negli ultimi trent’anni del Novecento. Molti ragazzi avranno le idee un tantino confuse e approssimative sulla nuova società da edificare, e parteciperanno alle “occupazioni” soprattutto per ampliare le proprie conoscenze interpersonali, per cercare l’anima gemella, per staccare dallo studio e dagli esami per un po’, o, genericamente, anche per “andare contro il governo” e “la società”.
Per tale ragione, Fragole e sangue, a una rilettura distaccata e storica, ci appare un saggio sociologico equilibrato e lungimirante. Segnatamente nel finale, già rammentato, esibisce una vigoria realistica (Hagmann veniva dal documentario, influenzato dal “direct cinema” canadese e statunitense dei Sessanta) nel denunciare, senza tentennamenti, la violenza della Guardia Nazionale che anticipava, profeticamente, in parte, l’omicidio di George Floyd.
La scena della brutalità ad opera appunto della Guardia Nazionale, all’interno dell’università, è forse una delle migliori ricostruzioni che il cinema abbia mai proposto, dal tempo della carneficina dell’esercito americano contro gli scioperanti della fabbrica, in “Intolerance” (D.W. Griffith, 1916) o della sanguinosa repressione, a opera di soldati zaristi a danno degli operai, in “Sciopero” (1924) di S.M. Ejzenštejn.
Hagmann non rinunzia ai mezzi che l’estetica del “cinema diretto” e la strumentazione innovativa di allora permettevano: veloci zoom e contro-zoom; ripetuti plongée (gli allenamenti di canottaggio, la palestra con i ragazzi sul parquet, ecc.); le panoramiche accelerate o “a schiaffo”, a 360°, sugli edifici storici di San Francisco; il taglio di montaggio con inquadrature ridotte a 1 secondo; flash back e flash-forward che si alternano volendo con-fondere l’asse del tempo.
Tutte soluzioni debitrici dell’avanguardia dadà, realista, surrealista (Man Ray, René Clair, Dziga Vertov, Luis Buñuel, Jean Vigo), oltre che naturalmente del cinema documentario di cui sopra, ma anche di autori che in Europa stavano rivoluzionando il tempo del racconto cinematografico, come il praghese Jan Švankmajer. Fragole e sangue è consigliabile per chi voglia perfezionarsi nel montaggio.