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Conte, Merkel e le scuse per dire no al Mes. L’analisi di Polillo

Giuseppe Conte farebbe bene a riflettere sul monito di Angela Merkel. Su quel rimprovero, nemmeno tanto velato, a piantarla di porre scuse per rinviare scelte necessarie come quelle relative all’utilizzo di tutti i fondi Ue. Che il premier tedesco si è presa la briga di indicare uno per uno: dai fondi Bei, al Mes e lo Sure. “Questi strumenti – ha precisato – possono essere usati da ciascuno, e non li abbiamo creati per lasciarli inutilizzati”. Risposta addirittura sgarbata da parte del Primo ministro italiano, stando almeno a quanto riporta l’Agenzia Ansa, “a far di conto sono io, col ministro Gualtieri, i ragionieri dello Stato e i ministri”. Come dire: non t’impicciare. Quindi gelo tra i due: come riportano tutti i giornali non solo italiani. Dato che l’intervista di Frau Angela era stata data a diversi quotidiani europei, quasi a sottolineare la necessità di andare al fondo dei problemi, in considerazione della gravità di una crisi di cui, ancora oggi, è difficile prevedere i possibili sviluppi.

Ebbene, di fronte a tutto ciò, in Italia ci si attarda su cose evanescenti. Che faranno anche parte del sentimento identitario delle diverse forze politiche. Non solo di maggioranza, ma anche di opposizione. Ma che ben poco hanno a che vedere con la realtà con cui il Mondo intero, e non solo l’Italia o la stessa Europa, è costretto a misurarsi. Finora tutte scuse per dire no al Mes non hanno prodotto uno straccio d’argomento. Hanno avuto, come bersaglio, le vecchie regole del 2012: epoca in cui il Mes o meglio l’Esm (European Stability Mechanism) prese il posto dell’Efsf (European Financial Stability Facility) e dell’Efsm (European Financial Stabilisation Mechanism). Come se da allora non fosse passata un’eternità. Si continua a ripetere, come un disco rotto, che nei Trattati è prevista una perversa condizionalità. Che c’é la Troika che, come “un spettro si aggira per l’Europa”. Nemmeno fosse l’incipit del vecchio Manifesto del Partito comunista di Carlo Marx.

È del tutto inutile tentare di spiegare che, in questo caso siamo di fronte ad un Mes 2.0. Che ha un diverso profilo giuridico. E condizionalità che sono limitate alla gestione di quei fondi che devono servire solo per far fronte alle necessità dirette o indirette legate alla pandemia. Come se non bastasse di fronte alle grandi incertezze che si profilano dopo l’estate. Speriamo che alla fine tutto vada bene, ma se si dovesse verificare il contrario va da sé che, forse, quei 37 miliardi di euro sarebbero appena sufficienti. Tutto inutile: tanto non c’è sordo peggiore di chi non vuole sentire. E non vuole farlo, perché altrimenti sarebbe costretto a confessare di aver sbagliato calcoli e valutazioni. Forse perderebbe il sostegno di qualche irriducibile, ma acquisterebbe il rispetto di tanta gente: pronta ad apprezzare chi, onestamente, riconosce che si può anche sbagliare. Ma che l’importante è riconoscere in tempo i propri errori e comportarsi di conseguenza.

C’è un unico argomento che, in qualche modo, può essere ancora evocato per rinunciare a priori a quei vantaggi. Il possibile danno reputazionale. Ossia lo stigma. Il timore che accettando quei soldi si confessi la propria debolezza, scatenando la reazione dei mercati, pronti a mordere le caviglie dei Paesi in difficoltà. Ed allora – questo il ragionamento – il vantaggio di avere un costo del finanziamento, con un risparmio di circa 5 miliardi di euro, a conti fatti, sarebbe più che compensato dagli aumenti degli spread sugli altri titoli sovrani. Circostanza che spiegherebbe la prudenza spagnola o portoghese nel richiedere un simile intervento. La stessa Grecia ci starebbe ripensando. Tutto vero in apparenza. Ma nessuno si prende la briga di analizzare le diverse convenienze. Se già quei Paesi, compresa la Grecia (purtroppo), riescono a finanziarsi ad un costo minore di quello italiano, allora perché rischiare?

Ma poi è veramente un rischio? Nel 2011 l’Italia non ebbe dubbi. Nella famosa riunione del G20, quando Francia e Germania proposero a Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti di accettare l’intervento dell’Efsf, il rifiuto fu immediato. Sarebbe stata una cocente sconfitta. Un’onta. Una sorta di dichiarazione di resa, che avrebbe costretto il governo alle dimissioni. Per questo bisognava resistere. Erano i primi di novembre del 2011. Il 12 novembre dello stesso mese Berlusconi rassegnava le dimissioni. Da allora non vi sarebbe più stato un premier italiano direttamente eletto dal popolo.

Fu una scelta giusta? O già quella non fu venata dal pregiudizio, da una sostanziale sfiducia verso alleati con cui si era percorso un lungo tratto di strada. L’interrogativo è d’obbligo visti gli eventi successivi. In quegli anni drammatici, che vanno dal 2010 al 2016 la Grecia ottenne 288,5 miliardi di assistenza da parte del Fondo salva Stati, nelle varie versioni, dal Fmi e da prestiti bilaterali. l’Irlanda 67,6, il Portogallo 76,6, la Spagna 41,3 e Cipro 7,3. A questi programmi di assistenza l’Italia partecipò con un esborso pari a circa 44 miliardi come sostegno finanziario in forma bilaterale e come partecipazione all’Efsf. Sottoscrivendo il capitale del Mes per 125 miliardi, di cui 14 già versati. Tutto “a gratis” come si dice a Roma. Ossia non ricevendo alcun beneficio. Avendo preferito gestire la sua crisi – difficile non riconoscerlo – in modo autarchico. E’ stato un bene o un male? L’interrogativo è ancora sospeso.

Per rispondere bisognerebbe solo confrontare l’attuale situazione italiana con quella dei Paesi che hanno ricevuto assistenza. La Grecia stessa mostra oggi una performance migliore sia in termini di crescita del Pil che di spread sui titoli emessi e di conseguenza sull’ammontare annuale delle spesa per interessi. Spiegazione semplice: l’attivazione del Mes ha comportato l’utilizzo di un backstop. Una rete di sicurezza predisposta dalla Bce per rintuzzare, eventualmente, qualsiasi intervento di carattere speculativo. Per cui il valore degli spread è semplicemente destinato a crollare. Chi si mette contro la potenza di fuoco di una Banca centrale?

Certo i costi sociali che il popolo greco è stato costretto a sopportare sono stati enormi ed in larga misura ingiustificati. Ma forse il costo della cura autarchica italiana è stato minore? Solo un dato di confronto. Nel 2015 il valore delle sofferenze bancarie in Italia è stato pari a circa 210 miliardi di euro, quale riflesso della crisi produttiva innescata dalla gestione (Governo Monti) solitaria della crisi. Espressione di una sofferenza sociale senza confini. Basti ricordare i tanti suicidi. Un valore che è stato pari a più del doppio della media europea. Forse anche dopo l’intervento europeo avremmo avuto le stesse conseguenze. Ma forse no. Sarebbe bene rifletterci, per non commettere gli stessi errori.

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