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L’anima antica del nazionalismo italiano. Perché rileggere Enrico Corradini

Dopo poco più di un secolo rivede la luce Il nazionalismo italiano di Enrico Corradini che dell’Associazione nazionalista nel 1910 fu l’artefice ed il leader indiscusso. Per le edizioni Historica, esce in questi giorni, nella collana “La biblioteca ritrovata” diretta da Gennaro Malgieri, il libro nel quale è compendiata l’ideologia nazionalista (pp.188, € 15,00).

Dal saggio introduttivo di Gennaro Malgieri, pubblichiamo alcuni stralci

Con l’irruzione del nazionalismo sulla scena culturale e politica del primo Novecento si avverte un cambiamento profondo nel modo di concepire la nazione italiana, sia da parte delle élite che di quella parte della popolazione che avvertiva l’impegno sociale schierandosi con i partiti cattolico e socialista. Il mondo liberale, nel quale pure molti dei nazionalisti si erano formati, ne rimase scosso e, per certi versi, anche soggiogato. A monte di tale nuovo atteggiamento, che si configurava come un vero e proprio “sentimento” pre-politico, oltre agli avvenimenti sociali e culturali e agli accadimenti connessi con la stabilizzazione dell’Italia a conclusione del processo risorgimentale, vi era senza dubbio una vasta letteratura che faceva perno attorno alle idee di Alfredo Oriani, che pertanto può essere considerato l’ispiratore del nazionalismo, anche se, quando lui morì nel 1909, questa corrente stava appena muovendo i primi passi.

Tuttavia, Oriani, grazie al nazionalismo, visse a lungo “nelle” vicende che caratterizzarono i primi decenni del secolo scorso, in particolare tramite alcune opere – La rivolta ideale soprattutto, ma anche e specialmente La lotta politica in Italia – che, con un andamento “carsico”, lo hanno attraversato, influenzando le personalità della politica e della cultura più diverse.

Nel 1908, un anno prima della sua morte, Oriani pubblicò La rivolta ideale senza farsi eccessive illusioni, come non se n’era fatte quindici anni prima quando diede alle stampe l’imponente Lotta politica in Italia. Entrambe le opere caddero nel vuoto. Come tutti i profeti inascoltati, ebbe ragione soltanto “dopo”.

Colui che seppe trarre dalla lezione di Oriani il maggior “utile” spirituale e politico fu Enrico Corradini, fondatore, come da chiunque riconosciuto, del nazionalismo italiano.

Corradini nacque il 20 luglio 1865, a Samminiatello di Montelupo Fiorentino. Letterato, giornalista, politico, agitatore culturale, direttore e fondatore di riviste – “Il Marzocco” nel 1888 e “Il Regno” nel 1903 –, è stato un antesignano, sulla scia di Alfredo Oriani, del nazionalismo italiano, che da movimento pre-politico – grazie anche a lui e alla fondazione dell’Associazione Nazionalista Italiana – divenne nel 1910 un soggetto politico ed ebbe un ruolo tutt’altro che marginale nelle vicende italiane fino al 1922. Nel 1911 sostenne la Campagna in favore della guerra di Libia con due saggi (Il volere d’Italia e L’ora di Tripoli). Nello stesso anno, avvalendosi della collaborazione di due altre figure eminenti del nascente nazionalismo, Alfredo Rocco e Luigi Federzoni, diede vita al giornale “L’Idea Nazionale”. Fu anche collaboratore, dal 1908 al 1912, del “Corriere della Sera”. Vicino a Gabriele d’Annunzio, si schierò per l’intervento nella Prima guerra mondiale e alla fine del conflitto iniziò la marcia di avvicinamento al fascismo sostenendo la fusione del Partito nazionalista con il movimento mussoliniano, che sarebbe stata realizzata nel 1923. Nominato senatore da Vittorio Emanuele III il primo marzo 1923, fu membro del Gran consiglio del fascismo dal gennaio 1925 al dicembre 1929. Morì a Roma il 10 dicembre 1931.

corradiniEnrico Corradini occupa un posto di rilievo nella storia del pensiero del Novecento, e non soltanto come “creatore” o “ispiratore” del movimento nazionalista, ma anche – e soprattutto – come intellettuale, di formazione letteraria, che comprese prima di molti altri che il superamento della “questione sociale” poteva, e doveva, avvenire soltanto nell’ambito della “conquista” dell’idea di nazione da parte nel proletariato.

I romanzi La patria lontana e La guerra lontana testimoniano l’intuizione corradiniana fondata sul superamento della lotta di classe in una più vasta articolazione sociale e culturale: la comunità sociale. In questo senso, forse, Corradini può essere considerato come il precursore di quel nazional-sindacalismo che avrebbe avuto un ruolo primario nel fascismo.

Egli cominciò a meditare sulla possibilità di conciliare “questione sociale” e “questione nazionale” nell’anno di Adua, nel 1896.

Drammaturgo e letterato già di qualche notorietà, fu letteralmente scosso dalla disfatta italiana in Africa. Dal senso di disfacimento che si faceva strada in lui maturò il profondo disprezzo verso i partiti politici i quali, a suo giudizio, scavano un baratro nella vita nazionale esasperando l’antagonismo tra le classi e favorendo la divisione tra gli italiani. Nel lamentare come nel quadriennio 1872-1876 ben 206 scioperi avevano infiammato le contrade dell’Italia, Corradini concludeva che il socialismo non sarebbe mai riuscito nel suo intento di promuovere l’emancipazione delle classi meno abbienti perché programmaticamente le proiettava contro una parte della nazione alla quale avrebbero dovuto sottrarre ricchezza e potere, quando la situazione e il buonsenso avrebbero consigliato, al contrario, una politica di pacificazione e di concordia tesa al raggiungimento della maggiore produzione, unico fattore di benessere per tutti i ceti.

Egli, dunque, vedeva la lotta di classe come fattore dissolvente la coscienza nazionale e responsabile di condurre gli uomini nelle angustie dell’egoistico, al soddisfacimento degli interessi e dei bisogni immediati; mentre la nuova dottrina nazionalista, che esaltava il principio della nazione come fondamento storico-politico di una comunità umana, si contrapponeva alle teorie tendenti alla dissoluzione della coesione tra uomini legati a una stessa cultura e partecipi di un medesimo destino.

Nel volume Il nazionalismo italiano, pubblicato nel 1914 – che riproponiamo nelle parti più significative, tralasciando i capitoli che trattano aspetti della politica dell’epoca –, Corradini mette fin da subito le cose in chiaro. Scrive: «La concezione nazionalista si fonda anzitutto sul riconoscimento che la vita è di natura sua collettiva. Gli antisocialisti in genere sono ritenuti individualisti, ma bisogna chiarire in che senso un nazionalista, o la sua natural conseguenza, l’imperialista, è un idealista e in che senso è precisamente l’opposto».

Il volume – raccolta di scritti, discorsi e saggi inediti, datati tra il 1908 e il 1914 – è lo strumento migliore per comprendere il nazionalismo corradiniano e le ragioni che lo indussero a fondare, nel 1910, l’Associazione Nazionalista. Sono note che il pensatore politico cominciò a elaborare fin dai tempi della fondazione del “Regno” insieme a Pier Ludovico Occhini, intellettuale fiorentino, padre di Barna Occhini ed esegeta del nazionalismo, del quale fu una delle migliori teste pensanti.

Corradini, precisato che il nazionalismo “è la più grande forma di vita collettiva possibile nella pratica realtà”, notava come “l’universalità” dell’uomo fosse stata ridotta dalla lotta di classe a povera cosa; in altri termini, un ritorno alla considerazione dell’uomo semplicemente come animale il quale, però, aggiungeva, «non vuol riconoscersi e si proclama massimamente altruista e idealista, cioè, massimamente spirituale. Non avendo più virtù nemmeno per essere nazionale, bandisce il dogma dell’internazionalismo».

Negli anni successivi alla folgorazione sulla “via di Adua”, Corradini si interrogò intensamente sul rapporto tra classe e nazione, sul conflitto tra le classi, sulle possibili ipotesi di soluzione “simultanea” della “questione sociale” e della “questione nazionale”.

Secondo Corradini non vi sarebbe stata pace in Italia, e quindi giustizia, se non quando il socialismo fosse stato sconfitto. La sua si caratterizzò come un’opposizione sistematica alla predicazione dell’odio di classe e alle sue conseguenze politiche come l’internazionalismo, il pacifismo, l’antimilitarismo, l’irreligiosità. Opposizione non preconcetta, ma assai fondata, perché vedeva nel socialismo la forza incapace, da un lato, a sollevare le sorti del proletariato e, dall’altro, pericolosamente atta a stremare il capitalismo fino a distruggerlo; e il capitalismo, per Corradini, era il fondamento dell’economia nazionale che andava certamente “riformato”, ma non abbattuto.

L’antisocialismo originario di Corradini spiega tutta la parabola della sua attività politica e intellettuale. Nell’inverno del 1914, ricordando la nascita e lo sviluppo nefasti del socialismo in Italia, disse: “Ci fu un momento in cui questo partito ebbe causa vinta, e l’ebbe non tanto per forza propria quanto perché trovò dovunque alleati, in tutta la politica parlamentare, in tutti i partiti e uomini che avevano i favori del popolo. Fu il momento che seguì la battaglia di Adua. Allora la nostra Italia giacque al fondo della sua miseria: vinta, screditata in Europa, umiliata, con una monarchia esterrefatta prima, sanguinante dopo, con uno Stato ridotto a un’amministrazione, con tutta la decrepitudine delle sue classi dirigenti e tutte le sue tradizioni dei tempi servili che freneticamente, e quasi direi oscenamente, reagivano contro il tentativo di grandezza fatto da un uomo solo, ebbe l’obbrobrio. L’Italia parve verso la sua fine come nazione ridotta a un popolo povero che prolificava per emigrare. Una sola parte dell’Italia fu allora vitale, fu una forza nel rigoglio della giovinezza, e questa parte fu il socialismo. Ma il socialismo agiva per sé e per il proletariato, non agiva per la nazione. E il resto era morte, debilitazione e viltà”.

A questo stato di cose, Corradini intese in primo luogo reagire lanciando l’idea nazionalista delle pagine della rivista “Il Regno”, il cui primo numero uscì il 29 novembre del 1903. La pubblicazione voleva essere una voce “contro la viltà presente”, come veniva solennemente proclamato nel programma, e innanzitutto “contro quella dell’ignobile socialismo, di questo gigantesco tumulto delle nuove forze mondiali finito in pochi Saturnini che hanno fatto il proprio saturnale con le loro fecce. In luogo d’ogni ordine d’idee generose fu posta l’ira dei più bassi istinti della cupidigia e della distruzione. Tutte le classi furono messe al bando per una sola, e la mercede dei braccianti diventò principio e termine dell’umanità società. Le furie del numero furono scatenate contro tutti i valori”. L’editoriale del primo numero s’intitolava Per coloro che risorgono. E l’incipit era chiaro: “Io e gli amici miei, fondando questa rivista, abbiamo un solo scopo: essere una voce fra tutti coloro i quali si colgono e/o si sdegnano per la viltà della presente ora nazionale. Il vero popolo italiano già mostra di scuotersi dal torpore. Per le città e per i campi, per le officine e per i fòndaci, il popolo prolifico e paziente si va facendo ogni giorno più industre. Esistono le basi della prosperità. Su queste dovranno sorgere le opere e i monumenti della grandezza.  Noi partiamo dal primo fatto certo, vòlti verso la certezza futura. Dall’oscura fatica degli umili cittadini al trionfo nazionale: è tutta l’ascensione d’un popolo. Vogliamo essere una voce tra quanti, se non altro coi voti, affrettano quest’ascensione”.

Nell’audace programma del “Regno” ce n’era per la lotta di classe, ma anche per la borghesia, “diventata la sentina del socialismo sentimentale”. Per cui Corradini si fece, in un certo senso, banditore del risanamento della borghesia onde poter sconfiggere il socialismo. Impresa inane, come egli stesso capirà, destinata a essere accantonata fino al verificarsi del Grande Evento che costrinse, in una certa misura, tutte le classi a ripensarsi e ad “autoriformarsi”.

Di fronte al socialismo, all’egemonia della borghesia, al radicalizzarsi dell’antagonismo tra i ceti fu chiaro a Corradini che il problema che stava di fronte alla società politica italiana dei primi anni del secolo era quella di restituire la nazione e lo Stato alle classi, soprattutto a quelle meno abbienti, che avevano visto il processo unitario nazionale come lo sviluppo di qualcosa che nasceva al di sopra di esse, forse addirittura contro di esse.

L’ostilità al socialismo, nutrita nel quadro di una visione estremamente realistica della vicenda politica del suo tempo, portò Corradini a considerare la lotta del proletariato per l’emancipazione proiettata su uno scenario tutto nuovo che non mancò di destare vivo interesse tra gli osservatori di cose politiche.

Corradini non era un paladino delle classi dominanti e riteneva il proletariato una delle componenti essenziali della vita e del progresso della nazione, per cui si convinse che soltanto chiudendo la lotta delle classi più disagiate negli argini dell’economia nazionale essa avrebbe potuto avere un senso.

In altri termini, immaginava di risolvere il conflitto nel contesto di un ordinato e inarrestabile sviluppo della potenza della nazione nel mondo.

Da questa riflessione, originata dall’avversione al socialismo, nasce paradossalmente il suo avvicinamento al sindacalismo, quello che possiamo definire come il primo atto di simpatia del fondatore del nazionalismo nei confronti del sindacalismo, datato dicembre 1909, quando Corradini pronunciò a Trieste un memorabile discorso.(…)

Corradini aveva colto nei lavoratori l’anima della nazione. A differenza della borghesia, interessata soltanto alla difesa dei propri interessi, la classe operaia, nella più vasta accezione, si riconosceva nella Patria comune per quanti sforzi facessero le forze della divisione e dell’eversione per cancellare il sentimento che la teneva intimamente unita a una storia, a una cultura, a una passione avvertite quasi inconsciamente. «Il nazionalismo è un’integrazione», diceva Corradini, e a essa si riferiva quando immaginava una nazione forte al suo interno, determinata nella difesa dei suoi confini, coesa tra tutte le componenti che ne costituivano il tessuto comunitario.

Non c’è, nel nazionalismo corradiniano, ombra di discriminazione né di sopraffazione. Infettare il nazionalismo con tendenze che nulla hanno a che fare con esso, come sta avvenendo in Europa da qualche tempo, è un omaggio sacrificale all’ignoranza e all’odio che da essa promana. Nel discorso tenuto a Fiume e a Trieste nel dicembre 1913, Corradini affermò con calore: «La nazione supera se medesima in qualcosa che la supera: nel concetto di civiltà»; e della civiltà le colonne portanti sono i valori morali e i diritti non negoziabili. Il “regno” nazionalista di Corradini e dei suoi amici era tutto in questo perimetro, all’interno del quale la nazione si fonda, si costruisce, si sviluppa, cresce e s’espande, non per bramosia predatoria, ma per impulso vitale, possibilmente insieme con le altre nazioni dal cui concerto potrà nascere la nazione europea, l’ultimo impero possibile che nazionalisti avveduti, ieri come oggi, riescono a immaginare al fine di salvaguardare una civiltà che, nell’indifferenza e nella sparizione dell’idea stessa di nazione, sta agonizzando.

 

 



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