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L’Italia tra fondi europei e crisi economica. L’analisi di Valori

La crisi economica italiana, alla quale si è aggiunto il dramma del Covid-19 e della chiusura generalizzata delle attività, è oggi arrivata al suo redde rationem.

Certo, la produzione è stata colpita al 34%, così ci dice l’Istat, sono state inoltre sospese le operazioni di 2,2 milioni di imprese, ovvero il 49% del totale, ma è stato chiuso il 65% dell’intera platea delle imprese esportatrici. Il che vuol dire che si sta trasformando il nostro sistema economico.

Tutto ciò ha bloccato, si spera temporaneamente, il lavoro di 7,4 milioni di addetti (il 44,3% del totale dei dipendenti privati non direttamente impiegati negli uffici) e questo ha, ovviamente, creato un effetto-valanga, insieme alla paura del coronavirus, che ha subito abbassato, e grandemente, il tasso di fiducia dei consumatori e delle imprese. La produzione è stata bloccata per il 34,2% delle imprese e per il 27,1% del valore aggiunto.

Quindi, con le chiusure generalizzate previste, la caduta dell’occupazione coinvolge oggi 385.000 lavoratori, di cui peraltro 46mila non regolari, per un ammontare di 9 miliardi di retribuzioni.

I settori più colpiti sono stati quelli della ristorazione e dell’alloggio (-11,3%) della logistica, dei trasporti e del commercio (-2,7%).
Con chiusure, settoriali, fino a giugno, la riduzione complessiva del valore aggiunto è del 4,5%.

Gli occupati coinvolti nelle chiusure definitive saranno circa 900mila, di cui 103mila irregolari, per un totale di 20,8 miliardi di retribuzioni mancate. Qui subentra la annosa e complessa questione della Unione Europea.

Se sommiamo tutti i finanziamenti Ue possibili e già ventilati, si tratta di quasi 100 miliardi di risorse, mentre è molto probabile che il nostro Paese possa avere una “potenza di fuoco” per generare crediti e fondi fino a 300 miliardi. Che le servirebbero tutti. E forse non basteranno. Non dobbiamo nemmeno dimenticare i 172 miliardi futuri del Recovery fund.

Finora, il governo Conte II ha messo in circolo, sia pure con normative scritte male, superficiali, perfino ingenue circa 75 miliardi di risorse, tutte in deficit.

Il Cura Italia ha “mosso” 25 miliardi, il decreto Rilancio di maggio 55 miliardi. Certo, i soldi non sono ancora arrivati a tutti, talvolta nemmeno a molti; e i finanziamenti alle aziende, pasticciati e tutti scioccamente utilizzati tramite il sistema bancario, che è strutturalmente inefficiente, ricordano quello che diceva solitamente un grande imprenditore lombardo, anni fa: “Cosa chiediamo allo Stato noi industriali? Che si tolga dalle scatole”.

I Fondi europei da Sure, Banca Europea degli Investimenti, European Stability Mechanism, muoveranno per tutta l’Ue circa 270 miliardi, con una quota per l’Italia di 96 miliardi.

Non bastano, di certo, per ricostruire il sistema produttivo e rimborsare i danni. Sure vale oggi, solo per noi, circa 20 miliardi, ma unicamente per finanziare la Cassa Integrazione, mentre i Fondi della Bei, 200 miliardi solo per le Pmi, saranno, sempre per noi, di 40 miliardi.
Quindi, ci indebiteremo, sia pure a condizioni di favore, per non arrivare però ad avere quello che ci serve davvero.

Il resto, sicuramente, lo dovremo prendere in prestito sui mercati finanziari e con i nostri autonomi titoli del debito pubblico, che però saranno secondari, allo scadere della loro maturity, rispetto ai debiti del Mes o della Bei.

Altro problema-chiave: se e quando, ma comunque avverrà, ritorneranno le norme standard del Patto di Stabilità, noi rimarremo con un debito elevatissimo, ma comunque passibili di tutte le reprimende sia dei “mercati” che della Ue, che a quel punto potrebbe anche rivedere le condizioni dei prestiti già in essere.

Per il Recovery fund, ci potrebbero essere a disposizione, per l’Italia, i già citati 172 miliardi, di cui 90 in prestito e 81 in sovvenzioni.
Ma, a fine 2020, il debito pubblico italiano salirà di ben 15 punti di Pil.

Perché? Ovvio, perché prima di tutto, perché si contrarrà il denominatore: il tonfo economico da coronavirus sarà ben maggiore di quello che comunque si realizzò già nel 2008, con un gravissimo -5,3% in meno del Pil di quell’anno.

Confindustria stima oggi una caduta del Prodotto Interno Lordo del 6%, mentre Goldman Sachs valuta un -11,6%.
Naturalmente, c’è poi l’aumento inevitabile della spesa pubblica, altro problema per la tenuta del debito pubblico, sperando che la speculazione se ne stia buona, ipotesi peraltro poco probabile, ma poi ci sarà sicuramente la forte diminuzione delle entrate fiscali.
Rischia l’uscita dal mercato, per esempio, il 20% dei professionisti iscritti agli Ordini. Non è poco. E altre associazioni di settore ci forniscono dati similari.

Se, quindi, assumiamo una contrazione del Pil del 6%, il rapporto Pil/debito pubblico arriverebbe, dal 135% di fine 2019, almeno a superare il 153% alla fine del 2020.
Con una caduta del Pil dell’11%, il rapporto debito/Pil alla fine del 2020 sarebbe del 163%.
Ovvio che, in un contesto del genere, anche nelle more della sospensione del Patto di Stabilità, il sostegno del debito italiano sarebbe comunque molto difficile.

Qui il problema è, anche, l’avanzo primario. Secondo i nostri dati, anche se ipotizzassimo un modesto rimbalzo del Pil nel 2021 del 2,5%, con un costo invariato percentuale del debito (2,6%, in questo caso) da ciò seguirebbe la assoluta necessità di avanzi primari almeno rispettivamente del 2,3% e del 2,6%, nel caso di scuola del 9% di caduta del Pil e anche del tracollo dell’11%.

Ovvero, in cifre, il governo dovrebbe abbattere la spesa pubblica sempre al di sotto di 40 miliardi rispetto al prelievo fiscale. Impossibile.
Quindi, si deve per forza monetizzare l’extradeficit con la Bce, monetizzare e non rinviare il pagamento alla scadenza, ma molto a lungo e per cifre che, probabilmente, saranno molto maggiori di quelle attuali. Sarà poi necessaria, inoltre, l’emissione di titoli di debito comune Ue. Altrimenti i mercati, che hanno già riso di una moneta che non ha nemmeno una fiscalità comune e una regola unica di bilancio pubblico, si avventeranno sul povero euro, distruggendolo.

Poi c’è, appunto, la Bce. Francoforte ha annunciato, il 4 giugno 2020, l’estensione del Pepp in quantità, da 750 a 1350 miliardi di euro; e anche in durata, oggi fino al giugno 2021 e, comunque, fino alla fine dell’emergenza. Si tratta qui proprio del programma Pepp, Pandemic Emergency Purchase Program.

Ma ci sono dei dati ulteriori da analizzare. In primo luogo, la attuale quota Pepp attivata per ciascun Paese Ue nel trimestre marzo-maggio 2020 corrisponde ancora, in sostanza, al capital key.

Ovvero, il capital key è quel meccanismo che stabilisce che la Bce acquista debiti sovrani in proporzione alla quota che ogni Paese detiene della Bce stessa. Oltre alla popolazione e a altri dati demografici e economici, comunque. Con due significative eccezioni, per ora: la Francia in negativo e l’Italia in positivo. Ovvero, la Francia sostiene de facto il debito pubblico dell’Italia, Ovviamente, non potrà durare a lungo.

Ma la quota Pepp, anche nel caso del debito italiano, non sembra poi essere poi così elevata come di solito si crede.
Il massimo di assorbimento è stato, da tempo, il programma di acquisto Tltro. Ma, comunque, si tratta di operazioni a breve e che i mercati sanno bene che finiranno presto. E poi? Non c’è una alternativa.

E non parliamo nemmeno della possibilità che, sulla base delle pressioni dei sedicenti “frugali”, ben diretti dalla Germania, tutto questo meccanismo cessi in un attimo. E c’è, ancora, un elemento che si dovrebbe studiare meglio, in Italia: la sentenza di Karlsruhe.

Essa riguarda, la Corte Costituzionale tedesca lo chiarisce bene, il programma Bce detto Pspp, ovvero Public Sector Purchase Programme.
Nato nel 2015, è ancora attivo. Non si sa ancora per quanto, per la gioia degli speculatori.

Nel merito, la Corte tedesca contesta la sentenza della Corte di Giustizia Europea del 2018, una sentenza in cui i giudici lussemburghesi non hanno giudicato lecito l’intervento della Bce, ma piuttosto hanno ritenuto che la Corte Ue dovesse limitarsi ai soli atti manifestamente eccedenti i limiti stabiliti dai Trattati e dallo Statuto della Bce.

Quindi la materia del contendere della attuale sentenza di Karlsruhe riguarda il principio di proporzionalità (art. 5 del Tue).
La Ue, infatti, sempre secondo il criterio di proporzionalità, può agire nelle “materie concorrenti” (che sono indicate all’art.4 del Tfue, Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea) solo qualora un determinato risultato sia più facilmente perseguibile attraverso un atto Ue che non per mezzo di un singolo intervento di uno Stato o di più Stati membri. Certo, la politica monetaria è di stretta competenza Ue e Bce, ovvio, ma l’azione della Bce ha ricadute inevitabili sulla politica economica, che è comunque di competenza concorrente.

Allora, si tratta di definire, dicono sempre i giudici di Karlsruhe, se la Bce non goda di indipendenza anche rispetto agli stessi trattati che la istituiscono, oppure se la stessa Bce debba comunque informarsi ai principi dell’ordinamento Ue alla quale appartiene.

In sostanza, si tratta di mantenere ancora separate, ed è scientificamente difficile, la politica fiscale e quella monetaria. Il sogno di ogni monetarista invecchiato male.

In sostanza, la sentenza di Karlsruhe ci dice comunque che la zona Euro è sub-ottimale (lo sapevamo già, il modello di Robert Mundell non vale certo per la Ue e l’euro) e comunque non rappresentativa. Anche questo lo sapevamo già, e da molto tempo.

L’euro è oggi un handicap per la maggior parte dei Paesi Ue, fatta salva la Germania. Il sistema dei tassi fissi con la moneta europea permette, a Berlino, di essere sempre più competitiva sull’export, in mancanza di meccanismi di riaggiustamento dei saldi commerciali con l’estero.

Inoltre, non c’è nemmeno una vera e omogenea politica fiscale, nei Paesi Ue, senza nemmeno dimenticare la proibizione di finanziare il debito degli Stati membri, stabilito peraltro fin dal Trattato di Maastricht.

Per evitare tutto questo meccanismo di finanziamenti Bce, magari razionale, ma illegale secondo i Trattati UE, i tedeschi ci chiedono sostanzialmente che i titoli del debito pubblico acquistati dalla Bce vengano rivenduti prima della loro scadenza.
Bene, ma ciò vuol dire solamente che il debito di uno Stato non possa essere mai annullato tramite l’acquisto del titolo tramite la sua Banca Centrale.

Quindi, il titolo continua a esistere e a essere faticosamente rinnovato o magari a rientrare nel mercato. Ma ci sono i fatti: senza il Qe di Mario Draghi, la Francia, per esempio, non avrebbe potuto certamente far riacquistare il 32% del suo debito pubblico dall’Eurosistema.

Quando i titoli di tutti i Paesi Ue arrivano alla scadenza, sono acquistati sempre altri titoli, perché l’esposizione rimanga intorno al 33% e i tedeschi rimangano contenti con il loro “diritto conficcato nella testa”, come diceva Voltaire nel suo Dizionario Filosofico, alla voce “Leggi”.

Un limite autoimposto dalla Bce, questo del 33%, per evitare una delle condizioni di Karlsruhe, ovvero le soglie di voto nazionale, nella Bce, nella ristrutturazione del debito di un singolo Stato.

Si noti bene, però, che la Bce finanzia l’assorbimento di debito pubblico dei Paesi Ue con la creazione di denaro e nihilo, come tutte le banche di emissione del mondo, ma questo è comunque esplicitamente vietato dai Trattati, ma è appena giustificato, giuridicamente, con l’obiettivo del contenimento dell’inflazione.

Una ideologia economica ormai molto vetusta, ma che va ancora molto di moda a Sonnemansstrasse 20, 60314 Francoforte sul Meno.
Tra i vari programmi Bce di acquisto di debito sovrano, siamo già a oltre 1000 miliardi di euro, l’8% della intera Eurozona.

Ma, per mettersi davvero a operare in questo settore, la Bce deve liberarsi anche della prima sentenza di Karlsruhe del 2017, ovvero proprio il limite del 33% e quindi l’obbligo di rimettere subito i titoli acquistati in circolo, dopo la fine della pandemia.

Una rivendita, sul mercato secondario, dei titoli ancora in scadenza, annullerebbe tutti i benefici della monetizzazione, ma occorrerà in futuro un nuovo Pepp, senza limiti quantitativi e per un periodo qualsivoglia lungo.
E la sentenza della Corte Costituzionale tedesca e la stessa Germania, con o senza cani da guardia “nordici” o “frugali” si metterà certamente in mezzo. E per noi (e la Francia) non ci saranno molti spazi di manovra.

Il Quarto Reich avanza non con i surriscaldati carri “Tigre” o con le droghe efedriniche del Pervitin, ma con il gioco monetario su una valuta non razionale.

Comunque, la Germania ha detto un chiarissimo “no” a questo processo di riacquisto e assorbimento del debito, ma proprio con la sentenza di Karlsruhe del 5 maggio scorso.

L’attuale Pepp è già evidentemente fuorilegge secondo la normativa tedesca, e avremo modo di ricordarlo. O ce lo faranno ricordare.
L’Italia, comunque, non sopravviverà dentro l’euro senza il Qe, o il Pepp, o qualunque altra diavoleria si inventeranno a Francoforte. La Francia, lo stesso, anche se non lo dice ancora chiaramente.

Quando la Bundesbank, al termine dei tre mesi concessi dalla sentenza della Corte Costituzionale tedesca, si sarà ritirata dalle operazioni di acquisto, ricomincerà, come è ovvio, a rimettere sul mercato diverse migliaia di Bund acquistati con la Bce.

Le vendite di questi titoli faranno risalire i tassi in Germania, un aumento che sarà comunque contrastato dalla fuga dei capitali italiani e francesi per acquistare debito tedesco.

E allora la stessa Germania apporrà autonomamente dei controlli sui capitali, anticamera della sua uscita dall’euro.
E gli Usa? A fine 2019, prima del lockdown, la quota di debito speculativo ad alto rischio di insolvenza era di 5200 miliardi di usd.
Negli ultimi due mesi da Covir-19, sono fallite in Usa 1600 aziende al giorno, mentre il debito al consumo, bacchetta folle e magica della spesa americana, si è contratto di almeno 2 miliardi di usd al mese. Per chi vive, scioccamente, di debiti, è una contrazione grave, senza contare che i consumi valgono, a fine 2019, il 75% del Pil di Washington.

È probabile, quindi che, data la correlazione stretta tra credito al consumo e consumi e quindi Pil, in Usa, si arriverà laggiù, quasi certamente, a una crisi ulteriore di solvibilità delle aziende. Gli interventi della Fed, dal 2008 a oggi, valgono 7 mila miliardi di usd, e le attività finanziarie in circolazione sul mercato Usa valgono però circa 120 mila miliardi di dollari, ovvero 5,5 volte il Pil nordamericano.
Quindi, nemmeno gli Usa ci daranno una possibilità di uscita.

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