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Vi spiego perché la globalizzazione è a rischio (e l’Italia di più). Scrive Zecchini

Con un’epidemia in piena diffusione, un’economia che stenta a uscire dalla recessione e una recrudescenza dei rigurgiti razzisti non ancora dominati, il presidente Trump cerca disperatamente alcuni bersagli a grande effetto per magnetizzare il consenso popolare in una campagna elettorale che lo vede attualmente perdente secondo i sondaggi. Prima il bersaglio era la Cina, perché vuole competere con il predominio economico e tecnologico degli Usa, poi gli scambi commerciali iniqui che vedono sempre la Cina, ma anche l’Europa e gli altri paesi asiatici approfittare del mercato americano per spiazzare le imprese e il lavoro del paese, e ora l’Europa per gli aiuti che fornisce all’industria aeronautica e da ultimo per la sua intenzione di tassare i giganti americani del web.

Le armi dei dazi, delle sanzioni antidumping e del “commercio gestito” sono usate a fini tanto di politica interna, che di ricatto verso tutti i paesi, senza distinzione tra alleati e non, e in spregio dei trattati internazionali vigenti, per far prevalere gli interessi americani e riaffermare il peso della sua economia e del suo ruolo militare nella difesa dell’Occidente. Le conseguenze sono inquietanti perché a vasto raggio in quanto vanno al di là dell’apertura dei mercati, mettendo in discussione le possibilità di riavviare lo sviluppo nell’economia mondiale, l’equilibrio nelle relazioni economiche tra paesi, i rapporti politici e la stessa capacità di ripresa dell’economia italiana.

Dagli anni 80 dello scorso secolo la liberalizzazione degli scambi commerciali internazionali ha consentito a molti paesi di accelerare la crescita delle loro economie e li ha tratti fuori dal sottosviluppo, pur generando problemi di aggiustamento per quelle più avanzate. Della globalizzazione hanno beneficiato, tuttavia, paesi ricchi e meno ricchi, che hanno saputo cogliere le ingigantite occasioni di mercato per estendere le loro produzioni, innovare e correggere le loro inefficienze di sistema. A dire della Commissione Europea (CE), 35 milioni dei posti di lavoro dipendono dall’export e il commercio con l’estero conta per il 35% del PIL europeo.

Questo processo di globalizzazione è entrato in crisi con l’inizio del nuovo secolo quando diversi paesi avanzati, tra cui l’Italia, hanno accusato vistosi ritardi nell’aggiustare i loro sistemi alla nuova realtà dei mercati. La crisi finanziaria del 2008, con il proliferare di misure protezionistiche tariffarie e non-tariffarie, ha innescato una decisa inversione di tendenza, ovvero l’arretramento nella globalizzazione.

Secondo l’ultimo rapporto dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, il valore delle importazioni del Gruppo dei maggiori paesi (G20) soggette a restrizioni è aumentato di 18 volte dal 2009 al 2018, arrivando a coprire l’8,8% del loro import. Dati ancor più recenti della CE indicano che il numero delle misure di protezione dei paesi esterni dall’import di prodotti europei è salito nel 2019 a 175 da 156 nel 2009 e se ne potrebbero aggiungere altre 37 per prodotti sotto indagine. L’Ue non è da meno nel proteggere i suoi mercati, anzi con l’esplodere della pandemia si è visto un ricorso eccezionale ad aiuti alle imprese, rallentamento degli scambi e misure volte ad accorciare le filiere di produzione portandole più in prossimità dei paesi membri.

La lista dei nuovi prodotti resa pubblica ultimamente dall’amministrazione Trump come obiettivo di nuovi dazi non è quindi uno sviluppo inconsueto nel panorama odierno, ma non per questo meno preoccupante perché indice di una escalation nella rottura del sistema di regole e metodi che ha sostenuto lo sviluppo economico dal dopoguerra, rottura con effetti a catena di ritorsioni e a cui si somma la previsione di un crollo dei commerci quest’anno (-11,9% secondo il Fmi) e di una ripresa parziale nel prossimo.

È chiaro che attualmente non è in discussione l’imposizione di dazi su singoli prodotti, ma l’intera architettura del commercio mondiale, che mette in causa le sovvenzioni alle imprese, gli aiuti all’export, le misure di salvaguardia, gli standard tecnici e sanitari applicati all’import, l’uso disinvolto di misure antidumping e compensative, la disciplina multilaterale delle preferenze e il governo del sistema. L’irrompere dell’economia del web e la predominanza dei giganti delle piattaforme digitali alterano sempre più le condizioni della concorrenza sui mercati mondiali, privilegiando le imprese “amiche” da cui possono estrarre benefici maggiori e rendendo più ardua la concorrenza delle altre. Altre alterazioni derivano dalla diversità di norme di protezione del lavoro e dell’ambiente, e dalle disparità di tassazione.

Per fronteggiare queste sfide, la Commissione che è competente esclusiva per i negoziati commerciali, ha proposto il mese scorso una strategia molto più assertiva del passato nella difesa degli interessi e degli standard europei, quasi a contrapporre all’azione americana una altrettanto determinata a farsi valere. Una strategia di “autonomia aperta”, che sul fronte esterno prevede accordi basati su regole e mutui benefici tra le parti, mentre su quello interno mira a rafforzare la competitività e rendere più resilienti le filiere produttive interne all’area nell’ottica anche della sostenibilità. L’efficacia di questo approccio non si vedrà nelle dichiarazioni, ma nei fatti, particolarmente nel confronto col peso negoziale degli Usa e con gli stessi paesi dell’Ue maggiormente dipendenti da quel mercato.

Tra i maggiori paesi dell’Ue l’Italia si trova in una posizione particolarmente vulnerabile e non solo per il rischio di perdere grandi sbocchi per le sue specialità agroalimentari, ma per le debolezze del tessuto produttivo, fatta eccezione per alcune aree industriali di punta. Debolezza nell’innovazione, nella digitalizzazione, nella dinamica della produttività, nel marketing e nei servizi, con in testa il turismo e la logistica. La forza competitiva del Paese non può essere limitata a poche nicchie di medie imprese tra i leader mondiali, ma deve fondarsi su un’ampia platea di imprese capaci di innovare, digitalizzare le loro attività e competere anche sui mercati esteri senza puntelli pubblici.

Il surplus commerciale realizzato nell’ultimo quinquennio non deve illudere, perché raggiunto in anni di bassa crescita e quindi di contenute importazioni. Anche nella bilancia agroalimentare nel 2019 si è riusciti a ridurre il disavanzo in virtù di un aumento dell’export superiore all’import, ma il saldo annuale continua a essere negativo (44,6 mld di export contro 45,4 mld di import). Affrontare le forti tensioni in atto nei rapporti commerciali è quindi responsabilità di tutte le parti: governo, imprese, lavoro ed istituzioni.

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