Forse ha ragione il ministro dello Sviluppo, Stefano Patuanelli, quando dice che un ingresso dello Stato nell’ex Ilva è quasi inevitabile. La situazione è onestamente complicata. C’è un gestore, Arcelor Mittal, ormai in rotta di collisione permanente con il governo italiano (tutto è nato con lo scontro sullo scudo penale, un anno fa) e che per giunta ha presentato un piano industriale (3 mila esuberi) bocciato senza pensarci due volte dai sindacati (domani in sciopero e in videoconferenza con il ministro dello Sviluppo). Piano irricevibile anche per l’esecutivo. Insomma, peggio di così non potevano mettersi le cose. Anche per Giuseppe Di Taranto, economista e storico delle imprese. Ma la colpa di chi è?
Di Taranto, governo, sindacati e Mittal sono a un passo dall’ennesima rottura, per giunta sul piano industriale. Uno Stato azionista sembra l’unica via.
Sembra proprio di sì, non vedo molte alternative. Su questa vicenda ho delle idee. Noi ci stiamo lamentando di Mittal, ma c’è un problema di fondo: visto che l’acciaio è un settore strategico, come molti altri, perché li vendiamo agli stranieri e poi ci mettiamo a piangere? Quando un settore diventa strategico per il Paese, solo quando arriva qualcuno che se lo compra e poi scopriamo che non ci piace? Con l’acciaio è successo esattamente questo.
Scusi, ma allora è colpa nostra se siamo in questa situazione e rischiamo di mandare in malora il più grande polo siderurgico d’Europa?
In un certo senso. Voglio dire, se vengono delle multinazionali qui e comprano made in Italy, lo fanno essenzialmente per due motivi. O vogliono togliere di mezzo un concorrente dal mercato oppure, peggio, comprano, rubano le tecnologie e poi ne decidono il destino, facendolo fallire o disattendendo i patti, come sta succedendo oggi. Pensi solo che che tra il 2008 e il 2013 abbiamo perso oltre 400 aziende italiane, passate di mano. Noi dobbiamo riflettere su questo, prima di vendere, anzi svendere le nostre aziende.
Ripeto, colpa dell’Italia…
Voglio essere chiaro, io non voglio difendere Mittal, ci mancherebbe. Ma dobbiamo essere realisti. Al netto di quello che ci siamo detti, c’è una crisi pazzesca dell’acciaio nel mondo, dovuta all’acciaio cinese. Nel momento in cui noi vendiamo a un’impresa privata il nostro acciaio, è evidente che l’azienda privata deve fare profitto, mica deve fare assistenza. Ma come ho detto, questi sono i rischi di quando si lasciano in mani estere asset strategici, come l’acciaio.
Tornare a un acciaio di Stato come ai tempi della Finsider può essere una scelta azzeccata, seppur dettata dalla sopravvivenza?
Io penso anche ai diecimila occupati. Sì, può essere una soluzione ma a un patto: che si ammodernino gli impianti. Perché vede oggi c’è tanta concorrenza e anche sleale, come quella della Cina, che vende acciaio di bassa qualità, per giunta parliamo di una produzione statale. Se si ammodernano gli impianti e si torna a fare dell’Ilva un’eccellenza in grado di battere la concorrenza, allora dico sì.
Di Taranto lei ha parlato di mani straniere sul nostro made in Italy. Le faccio notare che abbiamo la norma sul golden power in Italia. Non basta?
No, va rafforzato perché non possiamo continuare a permettere che società importanti italiani vengano vendute, spesso svendute, a investitori esteri. Ora, con la pandemia, rischiamo ancora di più perché le nostre imprese sono più deboli e dunque più esposte. Molte imprese, anche piccole e medie, non riusciranno a ripartire e allora ci sarà una corsa a comprarsele. Sta già succedendo nel settore alberghiero. Dobbiamo fare di tutto per difendere il nostro tessuto industriale. Anche perché il Paese avrà presto bisogno di tornare a crescere, per fronteggiare un ritorno dei vincoli europei
Che intende dire?
Che prima o poi il Fiscal Compact tornerà, non forse nella forma originaria, ma tornerà. Ci saranno regole Ue sui bilanci, noi abbiamo aumentato di molto i deficit quest’anno, e va bene. Ma quando torneranno le regole, perché torneranno, se non sapremo crescere che cosa ci inventeremo? Le faccio notare una cosa. Quando ci dicono che l’Europa ci dà soldi è vero, ma le condizioni ci sono: ci dicono dove investire e come usare le risorse. Anche queste sono convinzioni.