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Tra le polemiche linguistiche ecco l'”estate romana” post Covid-19

Il sindaco di Roma Virginia Raggi e l’assessore alla cultura Luca Bergamo lanciano l’idea di una nuova “estate romana” dello spettacolo e della cultura, per superare il post Covid-19. È stato coniato il criticato neologismo “Romarama”, piuttosto connotativo. Riaprono i teatri e alcuni cinema. Si progettano iniziative colturali. Inevitabile il confronto con la nota “Estate Romana” di Renato Nicolini, del 1977. Il nostro critico, Eusebio Ciccotti, allora 19nne, matricola di “Lettere e Filosofia” alla Sapienza, era tra gli spettatori di quell’estate. Ecco un ricordo e un confronto.

Lo spettacolo e la cultura stanno tornando nei teatri e nei cinema, utilizzando anche gli spazi non convenzionali, in tutte le città d’Italia, grandi e piccole, e nei paesi. Sindaci e assessori, associazioni culturali, scuole e università, vanno via via proponendo un’estate culturale nella quale, a giusta distanza, si possa tornare a esercitare quel ruolo insostituibile cui ognuno di noi è chiamato sin dall’antichità: quello dello spettatore o del destinatario di un’opera (Jan Mukařovský) senza il quale l’opera non esiste; uno spettatore-destinatario dal ruolo non passivo, ma attivo, una sorta di co-autore (Roman Ingarden, Umberto Eco) della cui esistenza l’autore tien conto nella costruzione della diegesi (Gérard Génette).

Gli autori citati sono parte (sarebbero da includere almeno Ferdinand de Saussurre, Roman Jakobson, Ludwig Wittegenstein) della “colonna metodologica” del mio primo anno d’università, novembre 1976 – agosto 1977. Cui si aggiungevano gli studiosi di cinema cui guardavo con interesse, alcuni “scoperti” già al liceo: Bela Balázs, Vsevolod Pudovkin, Gian Piero Brunetta, Umberto Barbaro, Luigi Chiarini, Mario Verdone.

Pochi ricordano che la Facoltà di Lettere e Filosofia di “La Sapienza” fu occupata dal gennaio 1977 sino all’aprile 1977. Niente lezioni. Vi erano gli “indiani metropolitani” che avrebbero dovuto cambiare il mondo. Quindi, preparammo gli esami studiando in casa. Quello che tutti gli studenti hanno fatto in questi mesi, con delle varianti. O nelle biblioteche. Eppure, per me, quel 1977, fu un anno di fruttuosi incontri. Entrai in un gruppo di giovani motivati, oggi noti scrittori e poeti: Arnaldo Colasanti, Claudio Damiani, Paolo Del Colle, Gualberto Alvino. Ero colui che si occupava delle teorie del cinema.
Il nostro gruppo, al 31 luglio 1977, aveva sostenuto tutti e cinque gli esami del primo anno che secondo il ruolino di marcia andavano completati entro febbraio 1978. Quindi, quando arrivò l’“Estate Romana” di Renato Nicolini, quel luglio e agosto 1977, mi trovò felicemente disponibile per il cinema all’aperto.

L’evento filmico per eccellenza, lo ha ricordato oggi lo scrittore Emanuele Trevi sul “Corsera”, fu la proiezione del film mai visto in Italia su grande schermo, “Napoléon” (1927) di Abel Gance. In effetti la ciclopica opera di Gance venne proiettata, come doveva esser, su tre schermi poiché così concepita. La musica dal vivo. I primi piani e i PPP, mai visti così giganti, ti trasportavano dentro il film. Cavalcavi insieme a Napoleone e ai suoi soldati. Le famose carrellate, ottenute con il lancio nel vuoto delle macchine da presa, da parte degli operatori di Gance, e ovviamente fracassantesi al suolo, per filmare l’azione, ti schioccavano. Tutti seguivamo “Napoléon” in metafisico silenzio. Ero un delle mille teste nell’arena della Basilica di Massenzio.

Il film terminò all’una del mattino. Credo di esser stato uno dei pochi diciannovenni della provincia di Roma che venne nella capitale per il “Napoléon”. Senza treni e corriere per tornare a casa, dovetti dormire nella puzzolente sala d’aspetto della II classe della stazione Termini. Una stazione allora buia, sporca, e perennemente inondata dall’intenso stagionato afrore d’urina. Nel febbraio 1978, durante una lezione di “Storia e critica del film” di Mario Verdone, egli chiese ai noi studenti chi avesse avuto la possibilità di vedere il capolavoro “Napoleon” di Gance, l’estate prima. Fui l’unico ad alzare la mano.

Debbo dire grazie a Renato Nicolini per aver visto quel film di cui Georges Sadoul nella sua mitica “Storia del cinema mondiale”, Feltrinelli, due volumetti dai quali non mi separavo mai, tesseva le lodi e che non vedevo l’ora di conoscere. Conservo ancora il programma del “Massenzio 1977”.

Ora la città di Roma, tramite la sindaca Virginia Raggi e l’assessore alla cultura Luca Bergamo, in una situazione storica e di sicurezza della salute completamente diversa rispetto a trent’anni fa, propone un’ estate romana di spettacoli e di appuntamenti culturali in collaborazione con soggetti pubblici e privati, denominata “Romarama”, neologismo di Chiara Fazi. Apprezziamo e attendiamo fiduciosi. Niente preconcetti. Il pubblico accoglierà con partecipazione la riapertura dei teatri, così come di alcune sale cinema; si inaugurano arene; vi è, infine, il rilancio di “Drive in” – in cui poco crede Carlo Verdone -, ma ben venga anche un po’ di American Graffithi.

Si è discusso se il neologismo “Romarama”, che allude anche al cinerama, con il quale l’Amministrazione capitolina ha nominato l’estate culturale romana post Covid-19, sia comunicativo o meno, se “acchiappi” o no. Il critico Paolo Conti, “Corsera” del 20 giugno, lo trova offensivo della memoria del brand “Estate Romana”, conosciuto e apprezzato in tutto il mondo. Altri ha precisato, a ragione, che l’ “Estate Romana” è quella di Renato Nicolini. Ma, lo sappiamo, i costrutti linguistici non sono di proprietà di nessuno. Anche se forse un titolo candidabile, dopo mesi di chiusura delle città, poteva esser “Roma città aperta”, magari come sottotitolo di “Estate Romana”.

Andiamo avanti, le etichette, si sa, con gli anni scoloriscono o si staccano. Nel corso del tempo, ci tornerà in bocca solo il sapore della nostra preferita madeleine-capolavoro, non appena scopriremo un nuovo film, uno spettacolo innovativo, un libro sconvolgente, un impeccabile concerto, una originale mostra, che ce la richiami alla mente.

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