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Il piano Colao è un programma di governo (ma quale?). La versione di Giacalone

Un piano di quel tipo lo si discute non solo dopo averlo letto, ma dopo averlo studiato. Al momento non è neanche stato pubblicato. Si sa che riguarda 6 settori ed è composto di 120 schede. Più qualche anticipazione, si spera non infondata. Sicché, al momento, discutiamo dei problemi che pone un piano di così vasta portata, non relativo ad uno specifico settore, e, quindi, a tutti gli effetti un programma di governo.

Questo è il primo problema: un piano di quel tipo lo elabora chi si propone di governare (non dico “candida a” perché ci sono in giro già troppe teste confuse che credono i governi siano eletti direttamente, cosa che non è mai stata, fin dal 1861), oppure chi si rivolge al Paese tutto, mantenendosi indipendente da chi governa e da chi si candida (questa volta sì) a sostituirlo. Difficile, invece, che possa nascere e funzionare sulla base di una sorta di delega rilasciata da chi governa, salvo consegna del piano elaborato a insaputa di chi dovrebbe poi applicarlo. Basteranno quattro temi, fra quelli affrontati dal Piano Colao, a chiarirlo.

1. Non manca il proposito di digitalizzare la Pubblica amministrazione. Più che giusto, ma anche un sempreverde della declamazione a perdere. Perché significa poco. Serve a nulla rendere digitale il procedimento amministrativo oggi esistente, anche perché lo è di già, almeno in parte. Servirebbe rendere concettualmente digitale l’amministrazione, quindi rivoluzionare i processi di lavoro e la loro trasparenza, così come avvenuto in ogni settore produttivo in cui “digitalizzare” non significa “acquistare un computer”. Solo che questo ribalta gli equilibri di potere e responsabilità, nell’amministrazione. Il che è programma politico, non faccenda tecnica.

2. Anche il “rientro dei capitali” e l’emersione dei quattrini contenuti nelle cassette di sicurezza sono suggestioni non nuove, ma che significa? Se ho pagato il dovuto al fisco e messo i miei soldi all’estero, oppure i bigliettoni in una cassetta, li faccio emergere quando lo ritengo conveniente e quando mi pare, senza che nessuno possa o debba metterci becco. Diverso se li ho accumulati evadendo, nel qual caso si chiama: condono. E questa non è materia tecnica, ma politica.

3. Mettere mano alle grandi opere è tema contenuto nei programmi di non ricordo più quanti aspiranti governanti e coalizioni a loro sostegno. È giusto, certo. Ma significa che, a questo giro, si mettono in condizione di non nuocere gli infiniti freni esercitati dal pulviscolo di poteri diffusi? In questo caso non si tratta di un programma di costruzioni, ma di rivoluzione del diritto. Che è materia politica. Anche la rimozione di ostacoli all’edilizia privata non è una novità e, del resto, fu già praticata. Il problema è: come si procede, e in che tempi, contro gli abusi? Perché se non si chiarisce il secondo pezzo poi ci si ritrova anche con cittadini che chiedono risarcimenti per case abusive, o abusivamente espanse, crollate con terremoti. Il che rade al suolo non solo la legalità, ma anche il ridicolo.

4. Creare un “fondo per lo sviluppo” facendovi confluire (obbligatoriamente, suppongo, altrimenti è mera declamazione) immobili e partecipazioni detenuti dalle tantissime mani pubbliche, è cosa buona e giusta. Ma non chiara. Quell’enorme patrimonio (per gli immobili si valutano all’incirca 400 miliardi) è una posta a fronte del debito pubblico e dismettere patrimonio è saggio se i proventi abbattono il debito, altrimenti mi trovo con più debiti e meno patrimonio. Ovvero in bancarotta. Dopo di che si allungano le mani sui patrimoni privati. Riunire le partecipazioni è saggio, perché già non funziona il capitalismo statale, mentre è da burletta quello municipale, ma dopo averle riunite che faccio, le lascio protette, per valorizzarle, talché se non è zuppa è pan bagnato, o apro quei pezzi di mercato alla concorrenza, vale a dire le vendo? E se le vendo, di nuovo, per spendere o per ripagare debiti?

Lo studieremo quando sarà pubblicato, il Piano Colao, ma bisogna ficcarsi bene in testa una cosa: il debito pubblico patologico, pre virus, e il nostro striminzito tasso di crescita sono il frutto dei problemi non affrontati e sempre rinviati, che non possono che essere il centro di qualsiasi programma politico serio, mentre è una pia e ipocrita illusione che siano faccende da risolversi in sede tecnica. Certo: a guardar certi governanti, non solo odierni, è facile capire che mancava la capacità tecnica, ma è stolto non riconoscere che mancava non (solo) per gli scarsi studi, ma per l’assente volontà di fare i conti con quelle realtà.

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