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Huawei e Zte, così il mercantilismo di Pechino ha minato l’innovazione globale 

Le politiche mercantili attuate dalla Cina negli ultimi decenni, volte a sostenere i suoi campioni nazionali nel settore delle telecomunicazioni, avrebbero ridotto la quota di mercato (e di guadagno) nel mercato globale con un effetto drammatico sull’innovazione delle aziende competitor, a vantaggio di Huawei e Zte.

È questa la scioccante conclusione dello studio condotto dall’Information Technology and Innovation Foundation, think tank di Washington leader mondiale nello studio dell’impatto delle politiche economiche sull’innovazione scientifica e tecnologica. 

A firmare il rapporto il suo presidente, Robert D. Atkinson, economista dal doppio passaporto canadese e statunitense la cui ricerca da decenni si incentra sull’economia dell’innovazione. Il suo ultimo libro, scritto a quattro mani con Michael Lind, Big is Beautiful. Debunking the Myth of Small Business (2018), rappresenta l’ultimo lascito della sua teoria: è un convinto sostenitore dell’imprese di scala, bacini d’innovazione, produttività e lavoro, fondamenta stesse della democrazia e prosperità americana. 

Di fronte alla competizione con la Cina, Atkinson si è fatto promotore, come altri prima di lui, di un’attiva politica industriale per gli Stati Uniti, al fine di scongiurare che la Cina possa raggiungere la supremazia tecnologica. “Sta diventando sempre più forte tecnologicamente e potrà facilmente sorpassare gli Stati Uniti se non agiremo”, ha commentato la settimana scorsa sulle pagine del Financial Times. 

Ma come si è arrivati a questo possibile scenario? Le critiche alle pratiche commerciali di Pechino nel promuovere le sue imprese sono emerse da tempo all’interno dell’amministrazione Trump, ma sempre più diffuse tra gli esponenti della business community. L’Itif ha definito le politiche attuate da Pechino come “distorsive” e “un freno all’innovazione globale”. A causa di quest’ultime, le aziende delle telecomunicazioni mondiali avrebbero innovato con molta più difficoltà, pagandone il prezzo. “Senza politiche e programmi mercantilistici scorretti sul piano dell’innovazione, la Cina non possederebbe un’industria delle telecomunicazioni competitiva sul piano globale e molte altre aziende straniere sarebbero più innovative e grandi”, ha dichiarato Atkinson. 

La tesi dello studio si basa su una metodologia incentrata sulla “teoria della relazione tra innovazione e competizione”, chiamando in causa i grandi economisti del passato che hanno riflettuto su questo fondamentale rapporto (da Joseph Schumpeter a Kenneth Arrow e i loro critici). Facendo riferimento a un grafico a “U” ribaltata, gli autori mostrano come la competizione sul mercato può essere dannosa per l’innovazione, dal momento che “le aziende hanno bisogno di ottenere profitti schumpeteriani per reinvestirli in innovazione che è tanto costosa quanto incerta”. Secondo lo studio, vi sono due modalità con cui questo scenario può concretizzarsi: la prima è “ridurre la fetta di mercato per le aziende innovative”. Dunque, con meno margine per i profitti, una quota decrescente di questi potrà essere reinvestita in R&D. La seconda è, invece, “riducendo i profitti e ritorni necessari per reinvestire nel secondo round di innovazione”, proprio perché “le industrie che innovano affrontano non solo una possibile perdita di quote di mercato, ma rischiano di scomparire”. 

Chiarito il framework teorico, gli autori ripercorrono la storia economica dell’industria delle telecomunicazioni degli ultimi decenni, mostrando come il Partito comunista cinese abbia tessuto una trappola alle aziende straniere: sfruttando la spinta della globalizzazione a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila, Pechino avrebbe attirato le aziende occidentali sfruttando l’appetibilità del suo mercato interno e strappando accordi (joint venture) con la possibilità di condividere know-how e tecnologie spesso poi indirizzate nel medio-lungo periodo a nutrire i suoi nascenti campioni nazionali, incluse Zte e Huawei. Alcatel, Ericsson, Motorola, Nec, Nortel Siemens e Sony Ericsson: una lunga lista di player mondiali caduti nella trappola. “In altre parole, la Cina non aveva il desiderio di entrare nel libero mercato in questo settore; ha cercato e ottenuto l’autarchia”, si legge nel rapporto. Una strategia mercantilistica che ha così avviato la costruzione di un’industria delle telecomunicazioni innovativa e domestica, “libera da qualunque legame con il business occidentale”. 

Tramite sussidi statali, barriere alle importazioni, svalutazione della moneta, corruzione e spionaggio industriale, incentivi fiscali e generosi prestiti bancari, furto della proprietà intellettuale, Pechino ha potuto corrodere la competizione globale al fine ultimo di ridurre i margini di profitto delle imprese straniere (riducendone il raggio di mercato) e così minandone le fondamenta schumpeteriane per l’innovazione tecnologica, subendo così un rallentamento complessivo. Che oggi si riflette in una corsa sfrenata per gli standard e le licenze 5G. Il rapporto, infatti, stima che se Ericsson e Nokia (rispettivamente al secondo e terzo posto dietro Huawei nel settore delle telecomunicazioni) si fossero spartite le vendite complessive di Huawei e Zte, ci sarebbe stato un 20% in più di spesa globale in R&D nell’Ict e il 75% in più di patenti per il 5G. “Questo non è per affermare che le pratiche cinesi non hanno stimolato l’innovazione nel settore”, chiarisce Atkinson, ma che quest’ultime “hanno limitato aziende più innovative nell’accedere al mercato”. 

La soluzione? Chiara e drastica. “Tutte le nazioni democratiche, basate sul libero mercato, dovrebbero escludere Huawei e Zte dai loro mercati interni mettendo in campo incentivi per promuovere la diffusione di tecnologie non-cinesi”. Una risposta che, inoltre, non potrà essere inquadrata nel consesso del Wto, dal momento che quest’ultimo “non è adeguatamente attrezzato per rispondere alle politiche d’innovazione mercantilistiche della Cina”. Un regime sanzionatorio contro i colossi cinesi non produrrebbe risultati, poiché “Huawei e Zte sono troppo grandi e potenti”. 

Anche l’Unione europea deve cambiare atteggiamento. Secondo il giudizio di Atkinson, l’Europa “sta solo comprando del tempo prima dell’inevitabile, quando le aziende cinesi domineranno i più avanzati mercati tecnologici del continente”. Il timore, secondo l’ipotesi del Presidente di Itif (peraltro confermata dai fatti), dei policymaker alla Commissione e nei Paesi europei è che escludere le aziende cinesi dal mercato unico possa minare il fondamento della concorrenza, spianando la strada per un duopolio Nokia-Ericsson. Una preoccupazione infondata, visto che “come dimostra il rapporto, avere più fornitori cinesi significa meno innovazione” per le aziende globali. 

In conclusione, questo caso studio rivela una delle possibili traiettorie per l’economia internazionale del nostro tempo. “Se le economie di mercato non sapranno cooperare per difendere lo spirito del Wto e i principi di mercato in questo settore, allora ci saranno poche possibilità che possano affrontare con successo il mercantilismo dell’innovazione cinese”. Ma soprattutto, che la competizione di mercato non debba essere pensata come il fine, ma piuttosto come il mezzo per raggiungere “un’innovazione più robusta”. 


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