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Ilva. Il siderurgico rimanga asset strategico dell’Italia. Il commento del prof. Pirro

Al momento in cui si scrivono queste note il sottoscritto non conosce le linee del piano industriale per l’Ilva che la dott.ssa Lucia Morselli per conto di AM Italy ha consegnato al Mise, ma ha letto le dichiarazioni del ministro Stefano Patuanelli che ha sottolineato con forza come le ipotesi di tagli occupazionali contenute (presumibilmente) in esso siano del tutto inaccettabili, e che pertanto – se Arcelor ritenesse di non poter più acquistare il Gruppo secondo i precedenti accordi – è bene che lasci la complessa partita in corso, giunta ormai a livelli di insostenibilità sociale soprattutto nello stabilimento di Taranto.

Giungerebbe così al suo epilogo una vicenda molto travagliata che aveva portato la holding franco-indiana ad aggiudicarsi una gara pubblica per l’acquisizione di un intero compendio industriale, ed in particolare dell’acciaieria ionica che resta la più grande d’Europa per capacità, e la maggiore fabbrica manifatturiera del Paese per numero di addetti diretti, pari a 8.200 unità: un’aggiudicazione che, prima di essere definitiva, sarebbe stata preceduta da un affitto di ramo d’azienda regolato da precisi canoni. L’arrivo poi a Taranto dal 1° novembre del 2018 del management di Arcelor – dando inizio così alla gestione operativa della grande fabbrica da parte del nuovo affittuario e futuro proprietario – era stato salutato, anche da chi scrive, come l’inizio di una nuova stagione che si auspicava di stabilizzazione, dopo le drammatiche vicende giudiziarie, e di pieno rilancio di un sito tuttora strategico per l’industria meccanica italiana.

Così purtroppo non è stato per una molteplicità di ragioni su cui abbiamo richiamato l’attenzione in precedenti occasioni, la più importante delle quali, in realtà, è di natura strutturale ed è riferibile al possesso da parte di Arcelor Mittal di impianti di fatto concorrenti con quello tarantino, in particolare a Dunkerque e Fos sur mer in Francia, potenziati peraltro di recente nelle loro capacità, e divenuti tali pertanto da impedire un pieno rilancio del sito ionico, peraltro gravato dai fin troppo noti vincoli giudiziari che vedono ancora oggi l’area a caldo posta sotto sequestro sia pure con facoltà d’uso.

Naturalmente la pesantissima crisi del mercato siderurgico italiano ed europeo ha contribuito ad impedire il progressivo dispiegamento delle capacità dell’impianto di Taranto, ma il vero nodo da sciogliere perché ciò accadesse era a monte delle dinamiche congiunturali, perché – come detto in precedenza – Arcelor ha in Europa impianti di fatto concorrenti, sia pure di minori dimensioni, e pertanto non sarebbe stato facile sin dall’inizio dell’operazione in Italia – come di fatto è poi accaduto – contemperare le esigenze produttive di Taranto, connesse alle sue imponenti dimensioni, con quelle degli altri stabilimenti europei del Gruppo franco-indiano.

Si aggiungano poi alcuni errori nella conduzione manageriale francamente impensabili per dirigenti di una holding che era riuscita a divenire il primo produttore di acciaio al mondo: ma evidentemente essere i primi non significa essere i più bravi, anche per una ragione di carattere storico: la famiglia Mittal – cui bisogna comunque riconoscere il merito di aver creato un impero aziendale a livello mondiale – non aveva però una lunga storia imprenditoriale e una consolidata cultura gestionale nel comparto siderurgico. Al riguardo invece, rimanendo in Italia, possiamo affermare che il nostro Paese, grazie ai Falck per la siderurgia privata e a Oscar Sinigaglia per quella pubblica, annovera illustri e autorevoli antenati nel comparto che oggi vede i nostri imprenditori del settore fra i migliori in Europa.

Se Arcelor lascerà coma sembra probabile alle condizioni stabilite nell’accordo del 4 marzo scorso, nell’auspicare nel frattempo un ordinato passaggio ai Commissari delle consegne nella gestione dei vari impianti, il governo dovrà dare corso alla newco con la partecipazione pubblica, selezionare nuovi partner privati – in un momento peraltro molto difficile del mercato siderurgico italiano e internazionale – e dare avvio ad un piano di settore, come ha affermato giustamente (a mio avviso) il ministro Patuanelli, perché al momento rimangono irrisolte le questioni di Piombino – ove la Jindal non ha ancora dato corso a tutti gli investimenti previsti – e delle Acciaierie di Terni che la Thyssen vuole vendere.

Allora la proposta di un piano nazionale per la siderurgia, almeno per quella a probabile partecipazione pubblica, è opportuna e riecheggia, come forse alcuni ricorderanno, se non proprio il grande Piano postbellico di Oscar Sinigaglia di riordino della siderurgia pubblica, quello che nel 1977 venne messo a punto nell’ambito della legge 675 di ristrutturazione e riconversione industriale. Corsi e ricorsi storici, dunque, nella storia dell’industria siderurgica nazionale, a condizione che l’acciaio pubblico e privato del nostro Paese ne rimanga uno degli asset strategici che gli consentono tuttora di essere una delle maggiori economie manifatturiere del mondo.



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