Come era fin troppo facile prevedere, la videoconferenza fra il ministro Stefano Patuanelli e i sindacati sul piano per l’Ilva presentato da AmInvestco Italy ha evidenziato la durissima e irriducibile opposizione ad esso non solo degli addetti di tutti gli stabilimenti del gruppo che stanno scioperando per l’intera giornata presidiando le loro portinerie, ma anche la delusione dello stesso esecutivo per quanto proposto.
I contenuti del piano sono ormai noti, a partire da un sostanziale declassamento dello stabilimento di Taranto che dovrebbe attestarsi su una produzione – nella fase di picco – di sei milioni di tonnellate di ghisa, con un’ulteriore pesante riduzione dei suoi occupati, oggi pari a 8.200 diretti, senza il rifacimento almeno per ora dell’Afo 5, il più grande d’Europa per capacità e da solo in grado di colare il 40% dell’intero impianto ionico, fermo ormai da anni e di cui non si prevederebbe il revamping sino al 2025. L’attuale locatario del Siderurgico – che, non lo si dimentichi mai, è tuttora di proprietà dell’amministrazione straordinaria – chiede inoltre risorse pubbliche per proseguire un’attività produttiva peraltro a regime molto ridotto, giustificandosi con la pesante flessione della domanda in Italia e in Europa.
Ora, intendiamoci bene: la contrazione della richiesta di acciaio nel nostro Paese e nel mercato comunitario non è certo un’invenzione di Arcelor Mittal e degli altri produttori e pertanto con essa bisogna fare i conti ad ogni livello, governativo, sindacale, e nelle associazioni nazionali ed europee degli acciaieri. Si aggiunga il rischio, ormai sempre più evidente, di un’irruzione sempre più aggressiva nella Ue di prodotti provenienti da Paesi dell’Estremo Oriente, ma anche dalla Turchia – output che molto spesso esce da impianti che non devono rispettare i vincoli ambientali cui invece e giustamente devono attenersi i produttori europei – e così lo spettro di una progressiva deindustrializzazione siderurgica incomincia ad aggirarsi nel Vecchio continente.
Detto ciò, tuttavia, in questo scenario sempre più cupo una complicazione aggiuntiva per il futuro del Gruppo Ilva e per l’acciaieria di Taranto nasce dal suo essere attualmente in affitto, tramite una controllata, da parte di una holding che ha impianti concorrenti in Francia come quelli di Dunkerque e di Fos sur mer, come ho evidenziato nel mio ultimo intervento su questa testata: e ciò rende strutturalmente difficile al management del gruppo franco-indiano contemperare l’esigenza di rilancio della fabbrica di Taranto con la tenuta dei suoi stabilimenti in Francia peraltro potenziati di recente nella loro capacità.
Questo è il nocciolo duro, il nodo vero che Arcelor non può sciogliere senza declassare o addirittura dismettere uno dei siti prima citati. Ma quello di Taranto – nonostante il deperimento delle strutture per le ridotte manutenzioni e le note vicende giudiziarie – è e resta il primo d’Europa per capacità produttiva e se venisse riportato con investimenti massicci per renderlo ecosostenibile ai livelli su cui per molti anni le Partecipazioni statali e soprattutto il Gruppo Riva lo facevano marciare, ovvero dagli 8 milioni di tonnellate in su all’anno, il sito ionico non avrebbe rivali in Europa e nel Mediterraneo.
Allora, è su questo punto che il governo italiano, la sua maggioranza ma anche l’intero schieramento delle forze politiche italiane non possono e non devono cedere: lo esigono la tutela dell’interesse nazionale e le associazioni di utilizzatori a valle dell’acciaio tarantino. Poi è del tutto evidente che periodi anche lunghi di contrazione del mercato si affrontano con gli ammortizzatori sociali, ma non bisogna dimenticare che quell’acciaieria alimenta un articolato sistema di aziende dell’indotto con altre migliaia di occupati, e un grande scalo portuale come quello del capoluogo ionico che, senza i traffici generati dal Siderurgico, rischierebbe di perdere persino la sede dell’Autorità di sistema portuale del Mare Ionio, con ulteriori danni per le aree apulo-lucane che si affacciano su questo mare e sono incluse anche nella Zes-Zona economica speciale ionica, facente capo proprio al porto del capoluogo ionico.
E poi è inutile nasconderselo: Arcelor e il suo management hanno perso credibilità agli occhi di chi lavora ogni giorno in tutti gli impianti dell’Ilva e il governo deve tenerne pienamente conto, pena l’ingestibilità quotidiana dei vari siti. Infatti, quale affidabilità può ancora assicurare chi da mesi sta venendo meno non solo agli accordi del 6 settembre 2018, ma anche a quello del 4 marzo scorso? Certo, non è affatto facile, lo sappiamo bene, costruire un’ipotesi societaria alternativa, ma bisogna lavorarci, e subito anche, se già non fosse stato approntato un piano B. Allora, intanto si definisca il perimetro e l’ampiezza della presenza dello Stato e di sue controllate in una newco, vi si associno le banche disponibili a versarvi come quota capitale i crediti in prededuzione che vantano dall’amministrazione straordinaria, e si cerchino partner anche esteri, ma senza fabbriche concorrenti in Europa e che però vogliano entrare sul mercato continentale per aggirarvi i dazi che probabilmente saranno inaspriti dalla Ue.
L’indiano Jindal – che non ha ancora dato pienamente corso all’investimento su Piombino – ma anche la sudcoreana Cosco, i giapponesi di Nippon Steel o i cinesi di Baosteel non potrebbero essere partner della nuova società? E gli utilizzatori italiani pubblici e privati come Fincantieri, Saipem, Marcegaglia ed altri non potrebbero partecipare ad una grande operazione di rilancio del Gruppo Ilva e del suo stabilimento di Taranto in cui investire in un forno elettrico e nell’impiego di preridotto di ferro con una secca riduzione delle emissioni nocive? Non si stava già lavorando in Invitalia in questa direzione? E a che punto si è giunti? E il governo non potrebbe avviare la Fase 3 risolvendo proprio la questione Ilva senza bisogno di ricorrere ai suggerimenti (ai limiti delle ovvietà) della task force del dottor Colao?