Il lavoro deve essere misura e fine ultimo della crescita. L’affermazione non è scontata perché contraddetta dalla singolare sintonia tra movimenti neoluddisti e alcune élite espresse dalla rivoluzione tecnologica. L’esclusione di molti dal lavoro sarebbe inevitabile e meritevole solo di un reddito garantito. In Italia, Paese dai tassi di occupazione cronicamente bassi, il pericolo di una grande disoccupazione aggiuntiva è accentuato da misure emergenziali confuse e lente, da un contesto regolatorio ostile all’impresa, da un sistema educativo e formativo largamente fallimentare.
L’ipotesi di prolungare la durata di strumenti come la cassa integrazione e il divieto dei licenziamenti produrrebbe solo l’effetto di ingrossare una bolla destinata presto ad esplodere. L’impresa può affrontare la faticosa ripresa se lasciata libera di riorganizzarsi anche attraverso l’impiego delle tecnologie digitali. Il lavoro, qualunque ne sia la tipologia contrattuale, può essere incoraggiato dalla riduzione strutturale (non temporanea!) degli oneri indiretti e da accordi aziendali o territoriali che ne adattino le regole alle diverse circostanze. La detassazione degli aumenti salariali deve riguardare quelli virtuosamente decisi in prossimità e non egualitariamente (e antistoricamente) deliberati dai contratti nazionali.
La formazione si colloca per definizione nell’orario di lavoro e i meccanismi per incoraggiarla devono essere semplici e automatici senza procedimenti indagatori preventivi sulla qualità dei progetti. Sono soprattutto le organizzazioni territoriali di rappresentanza e i consulenti del lavoro i soggetti più idonei a costruire con scuole e università percorsi idonei alla prima occupazione o alla riqualificazione professionale alimentati dal riconoscimento della libertà delle scelte formative.
Se le istituzioni dell’istruzione pubblica appaiono intrappolate nei loro vizi autoreferenziali e corporativi, solo impulsi esterni dalla realtà possono rovesciare la situazione generando un circolo virtuoso. Basti pensare all’indiscutibile successo dei pochi Its. Ma le imprese possono, su base territoriale, produrre anche soluzioni interamente concorrenziali con le strutture statuali per l’istruzione secondaria (di secondo grado) e universitaria. Vere e proprie academy interaziendali, inserite nel sistema pubblico ma private.
Certo, anche iniziative sussidiarie tanto coraggiose avrebbero bisogno di un contesto istituzionale favorevole o che,quanto meno, non le ostacoli ideologicamente. D’altra parte, senza una mobilitazione di energie e di volontà dal basso, soprattutto dai territori più vitali, è difficile immaginare un cambiamento di questo stesso contesto.