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Se in Libia l’Onu non riesce a frenare il traffico illegale di armi

C’è un’immagine chiara su come la crisi libica viaggi su livelli diversi, a volte non accomunabili. Viene da una delle quotidiane osservazioni dai voli aerei che arrivano nel Paese (analisi che racconta molto di ciò che sta succedendo, possibile grazie agli strumenti open-source): giovedì 11 giugno, mentre un aereo con a bordo dei negoziatori della Nazioni Unite arrivava a Misurata dalla Tunisia, nello stesso aeroporto erano in avvicinamento tre C130 turchi – aerei da trasporto militare.

Ossia, mentre l’Onu era attiva con un’operazione diplomatica per cercare il punto su un negoziato potenziale, dalla Turchia arrivavano cargo militari (due da Istanbul, uno da Konya). Al di là del fatto che sulla Libia resta fermo un embargo riguardo alle armi, recentemente rinnovato e rafforzato anche con un’operazione di controllo guidata dall’Ue (e avallata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu) il doppio arrivo a Misurata racconta il doppio ritmo con cui si muovono le cose nel dossier.

Mentre si cerca di seminare il terreno del dialogo, le armi continuano ad arrivare; ma di più, mentre l’Onu viaggia con un ritmo burocratico, altri player accelerano – e hanno accelerato, rallentato, accelerato di nuovo, imprimendo l’andamento che volevano alla questione. La Turchia per esempio ha intenzione di rafforzare la propria presenza militare in Libia, e vuol permettere alle forze del Gna (il governo internazionalmente riconosciuto) di procedere anche all’ultimo passaggio del conflitto contro l’aggressore Khalifa Haftar: la presa di Sirte.

Il Gna è un governo che nel 2016 è stato insediato a Tripoli per volontà dell’Onu (con una forzatura diretta dall’Italia). Serviva per dar seguito all’accordo di pacificazione Lpa. Ma il Gna accetta le armi ricevute dalla Turchia, con la quale ha stretto un accordo di cooperazione militare (a novembre 2019) grazie al quale adesso sta vincendo la guerra contro Haftar (e i suoi sponsor, Russia, Egitto ed Emirati Arabi).

Tutte le armi che arrivano in Libia, sia sul lato della Tripolitania che in Cirenaica, violano e hanno violato l’embargo Onu. Di queste spedizioni le Nazioni Unite conoscono tutto – mittente, corriere e destinatario – eppure non implementano sistemi sanzionatori. Ciò rende l’azione onusiana debole, tant’è che nessuno ha mai smesso di foraggiare i propri cavalli in campo.

Ciò che rende ancora più debole l’attività Onu è però la stanchezza con cui affronta il dossier. Le Nazioni Unite, dopo le dimissioni del rappresentante speciale Ghassan Salamé a inizio marzo (“sono esausto”, aveva dichiarato), non hanno ancora nominato un sostituto. Eppure la Libia è un problema caldissimo e delicatissimo, dove si dipanano dinamiche geopolitiche che vanno ben oltre le contingenze e riguardano l’intero quadro del Mediterraneo e del Medio Oriente – ne è dimostrazione il collegamento osmotico con la Siria che ormai s’è palesato, o con lo scontro intra-sunnismo, o la politica di potenza che vede in campo Turchia e Russia, ma anche gli Stati Unti; e perché no la Cina, che giovedì, con un altro di quei voli interessanti, ha fatto arrivare un carico di aiuti sanitari a Tripoli (seguendo l’ormai nota “diplomazia della mascherine”).

Sulla questione dell’inviato c’è anche un confronto Russia-Usa. Washington vorrebbe una nomina rapida (aveva anche un nome americano, la voce di Salamé, Stephanie Williams, poi passato) e attualmente propone la ex primo ministro danese, Helle Thorning-Schmidt. Mosca non s’è espressa, ma ha più volte dichiarato che per il ruolo preferirebbe un diplomatico appartenente ai Paesi dell’Unione africana.

L’Onu insiste sul sistema che recentemente ha ricevuto il coordinamento dalla Germania e ha portato alla Conferenza di Berlino, la riunione senza esiti che s’è tenuta a gennaio. Il piano prevede contatti tra Est e Ovest, e considera Haftar un interlocutore. Ma le cose sono cambiate nel corso di questi mesi, e tutto è saltato dal rovesciamento della situazione di forza in campo. Haftar ha fallito l’assalto a Tripoli; il Gna non ha intenzione di sedersi a trattare con lui – e nemmeno i suoi sponsor lo ritengono ormai credibile.

L’ambasciatore tedesco per la Libia, Oliver Owcza, martedì 10 giugno era ad Al-Rajma a stringere la mano ad Haftar, in quanto interlocutore. Per la Germania il signore della guerra dell’Est deve essere inserito nei negoziati, ma questo non fa che indebolire la posizione tedesca e indispettire Tripoli.

Il processo dunque parte da quello che sembra un non-starter, che la cronaca aggrava. Giovedì sono state scoperte delle fosse comuni attorno alla città di Tarhouna, che per 14 mesi è stata una roccaforte avanzata degli haftariani. “Orrore” dice l’Onu, “orrore” rimbalzano le varie ambasciate.

Il punto è che la città è stata gestita dalle forze di Haftar e dalla “Nona Brigata” dei fratelli Kaniat, un clan mafioso che si occupava di mantenere l’ordine per conto degli haftariani – una decina di giorni fa, sono tutti fuggiti rapidamente quando le forze del Gna hanno pressato per riprendere il controllo dell’area.

L’Onu ha lanciato un’inchiesta, per Tripoli la responsabilità è tutta di Haftar – e anche per questo, dicono dal Gna, “non ci vogliamo sedere con un criminale di guerra che ha sterminato civili libici”. Le fosse comuni di Tarhouna sono una delle pagine più atroci degli ultimi quattordici mesi. Come per la partita di politica geopolitica tra i vari attori esterni, anche per l’Onu il dossier libico è un grande test: vengono messe alla prova le capacità delle Nazioni Unite di veicolare dinamiche futuribili e capacità costruttive.

“Finora otto fosse comuni sono state trovate a Tarhuna, molte identificate sono famiglie residenti, tutte uccise durante il periodo del controllo di Haftar sulla città, alcune sepolte vive. Che tipo di colloqui politici pensi possano essere possibili con un simile criminale di guerra!?”, commenta Taher el Sonni, rappresentante della Libia all’Onu.

(Foto: Unsmil)


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