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Cosa mi convince (e cosa no) del piano Colao per la ripresa. Scrive Polillo

Se 119 schede di proposte, per 121 pagine di scrittura corpo 11, vi sembran poche, provate voi a far di meglio. Questo il quadro generale del dossier rubricato con il titolo: “Iniziative per il rilancio “Italia 2020-2022″” che il gruppo di lavoro dei 20 esperti, capitanati da Vittorio Colao, ha prodotto e consegnato al presidente del consiglio Giuseppe Conte, alle prese con uno dei soliti amletici dubbi della sua gestione politica.

Quella riunione degli “stati generali” – una “casalinata” seconda la velenosa definizione di un rappresentante della maggioranza rosso gialla – s’ha da fare? Oppure no? Ancor prima di sciogliere il dilemma, gli esperti avevano detto la loro, presentando un malloppo di proposte che sfiora gran parte dello scibile. Cenni sull’universo, come diceva Antonio Gramsci di alcuni editoriali del bel tempo andato. In effetti già nella prima pagina si vede dove si voleva andare a parare: al centro un doppio cerchio. Si lotta e si muore per “un’Italia più forte, resiliente e più equa”.

Ergo, occorre “digitalizzazione ed innovazione, rivoluzione verde, parità di genere ed inclusione”. Liberté, Égalité, Fraternité: tanto per non essere fraintesi. Quindi gli assi portanti della conseguente strategia: 1) impresa e lavoro, motore dell’economia; 2) infrastrutture ad ambiente, volano del rilancio; 3) Turismo, arte e cultura, brand del Paese; 4) P.A., alleata di cittadini e imprese; 5) Istruzione, Ricerca e Competenze, fattori chiave per lo sviluppo; 6) Individui e Famiglie, in una società più inclusiva ed equa. Che significato attribuire ai numeri non è chiaro. Potrebbe essere un ordine di priorità o semplicemente un modo di classificare i diversi elementi.

La declinazione del primo punto (impresa e lavoro) ha comportato la redazione di 18 schede, per un totale di 32 pagine. Per il secondo (infrastrutture ad ambiente) ne sono state compilate altre 20 per un totale di 17 pagine. Al turismo e la cultura sono dedicate 15 schede per altre 20 pagine. Alla PA sono riservate 16 schede e 17 pagine. All’istruzione 12 schede per 14 pagine e, infine, al capitolo “individui e famiglia” 14 schede ad altre 20 pagine.

Struttura complessa e massiccia, che somiglia da vicino a quella del “Piano nazionale delle riforme” che ogni anno accompagna i documenti di bilancio prima di essere “inutilmente” trasmesso a Bruxelles. Che poi quel gran castello burocratico abbia prodotto nel tempo una ben minima riforma è tesi tutta da dimostrare.

Si spiegano allora i mugugni e le prese di distanza, non solo da parte del premier ma di molti esponenti della maggioranza, specie se si considera che alcune proposte risultano indigeste. Come i vari capitoli sulla Voluntary Disclosure (emersione del lavoro nero, disincentivazione uso del contante, e via dicendo), le semplificazioni ritenute eccessive in termini di appalti pubblici oppure la proposta di prorogare i contratti a tempo determinato oltre i limiti di legge. Temi che non hanno incontrato il necessario favore, visto il loro confliggere con sentimenti identitari fortemente radicati: sia in alcuni membri del Pd, che in Leu o nei Cinque Stelle.

Per quanto ci riguarda, non possiamo non apprezzare alcuni suggerimenti, relativi ad aspetti specifici della vita italiana. L’impressione, tuttavia, è quella di essere di fronte più a una fotografia, che non a una radiografia. Insomma l’orizzonte è fin troppo piatto, per cui i suggerimenti andranno tenuti presenti quando si tratterà di intervenire sui singoli comparti, ma dubitiamo che il loro insieme possa rappresentare quella spinta che è indispensabile per rendere l’Italia più forte e resiliente, come indicato nell’architrave programmatico che sorregge l’intero documento.

Ad esempio si può essere in disaccordo con l’idea di “incentivare la collaborazione interistituzionale, rafforzare i centri anti-violenza pubblici e privati e raddoppiare le case rifugio al fine di attuare efficaci misure per affiancare il processo di uscita dalla violenza delle donne italiane e immigrate colpite, come indicato dalla “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica”? Certo che no. Ma tutto ciò fa fare qualche passo in avanti alla crisi italiana?

Ed ecco allora il vero punto dolente. Qual è la lettura che gli esperti danno di questa crisi? Anzi, per loro, esiste una situazione che era tale ancor prima dello sviluppo della pandemia? Quest’ultima, a sua volta, ha o sta cambiando le cose, per cui si rende necessario aggiornare i tradizionali schemi interpretativi? Dalla lettura del documento questi interrogativi rimangono senza risposta. Ma se manca una diagnosi è possibile una conseguente terapia? Le soluzioni fornite appartengono troppo a un menù immaginario che, al di là delle singole specifiche, potrebbe andar bene per qualsiasi situazione e qualsiasi Paese.

Si potrebbe obiettare che non doveva essere questo il compito degli esperti. Non conoscendo le relative regole d’ingaggio, non sapremmo rispondere. Si potrebbe allora insistere: non spetta ai tecnici procedere a una lettura destinata comunque ad incidere sugli equilibri e le sensibilità politiche degli altri protagonisti della vita italiana. Vero anche questo. Ma purtroppo questo è quello che serve.

Troppo divaricate sono le visioni tra centro destra e centro sinistra. Esse alimentano una frattura che travalica il dato politico e assume quasi un aspetto antropologico, nel consolidare un falso sentimento identitario che ben poco ha a che vedere con il “legno storto” della realtà effettiva. Ed allora, se non a una cultura terza – quella dei tecnici appunto – il compito di ristabilire le giuste proporzioni, a chi dovrebbe spettare l’onere?


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