La grave epidemia di Covid-19 che ha colpito gran parte del pianeta ha avuto grandi ricadute oltre che sui sistemi sanitari, i quali si sono trovati impreparati dinanzi a un’emergenza di queste dimensioni, sull’economia e sugli equilibri economici e geopolitici internazionali. La corsa al vaccino, la mancanza di dispositivi di protezione, l’assenza di piani nazionali di risposta a epidemie mondiali hanno portato alla luce diversi interrogativi, mettendo in dubbio trend consolidati da decenni nei sistemi commerciali e industriali di diversi Paesi e delle diverse alleanze. Fra questi, la globalizzazione è stata senza dubbio uno dei primi imputati, causa (o capro espiatorio) al contempo del dilagare della pandemia ma anche delle carenze produttive di Paesi che, sulla carta, avrebbero potuto subire una sofferenza nettamente minore.
QUALE FUTURO PER LA GLOBALIZZAZIONE?
Proprio su questo si sono confrontati diversi esperti durante l’appuntamento “Pandemia e Value Chains: quale futuro per la globalizzazione” organizzato dalla Luiss Guido Carli, che ha visto fra i partecipanti il rettore e la vice presidente della stessa Luiss Andrea Prencipe e Paola Severino, la professoressa ed esperta di economia applicata Valentina Meliciani e la ceo della Johnson & Jonhson Medical Silvia De Dominicis.
IL RUOLO DELLE CATENE DEL VALORE
È indubbio infatti che la globalizzazione dei mercati abbia indotto a una sconsiderata attività di delocalizzazione alla ricerca di costi del lavoro e di produzione al ribasso, confermata dal prosciugamento del tessuto produttivo nazionale, che fino a qualche anno fa (prima della Grande recessione, s’intende), vantava numeri in crescita e competitivi con il resto d’Europa. Eppure, come ha ricordato Paola Severino, vi sono due modi per far fronte agli effetti negativi della globalizzazione che si sono presentati negli anni. “Il primo è la contrazione delle catene del valore, il protezionismo, la restrizione delle esportazioni soprattutto di beni essenziali. Il secondo è il rafforzamento delle catene di valore”. “Quest’ultimo – ha precisato la vice presidente della Luiss – funziona molto più efficacemente, anche perché i dazi impatterebbero negativamente su quella globalizzazione a cui noi tutti ci siamo abituati e che rappresenta in un certo senso una garanzia per la nostra democrazia”.
L’IPERBOLE DEL MERCATO GLOBALE
Bisogna considerare, però, nell’analizzare la condizione vigente, che le distorsioni della globalizzazione non risalgono al passato recente, sebbene solo oggi ne abbiamo toccato con mano le conseguenze, ma come ricorda Valentina Meliciani risale agli ultimi 15-20 anni del secolo scorso, quando la globalizzazione “ha sperimentato una fortissima accelerazione grazie al crollo dei prezzi del trasporto e all’abbattimento delle frontiere della comunicazione”. Ciò ha fatto sì che alla fine degli anni Ottanta i Paesi del G7 perdessero ampie quote del mercato globale a dispetto di nuovi attori. Nel 2010, infatti, “la quota detenuta da questi ultimi tornava pari a quella di decenni prima”, ha allertato Meliciani.
LE CONSEGUENZE DEL COVID-19
“Il grande vincitore di questa battaglia è stato non a caso un attore emergente, la Cina, intervenuta nell’ultimo decennio e trasformando la propria posizione all’interno dello scacchiere internazionale. Le dispute tra Stati Uniti e Cina, che si sono inasprite durante la pandemia, trovano la loro origine in questo cambiamento”, ha precisato l’esperta della Luiss. E la conseguenza diretta sarà una drastica riduzione degli scambi commerciali internazionali: secondo le previsioni della Banca Mondiale, ha riferito l’economista, “nel 2020 registreremo una riduzione del commercio internazionale di 10 punti percentuali in uno scenario ottimista e di 30 punti percentuali nello scenario più pessimista”.
SALUTE E SANITÀ GLOBALE
La soluzione all’eccessiva delocalizzazione, però, non può essere una speculare sfrenata chiusura al commercio internazionale. “In generale non vi sono dubbi che resilienza, robustezza e flessibilità della catena del valore garantiscono ampia accessibilità a costi sostenibili dei prodotti di prima necessità”, ha suggerito Silvia De Dominicis. “E questo risulta di primaria importanza per beni come quelli sanitari, che devono essere accessibili per l’intera popolazione mondiale. La catena globale rappresenta ad oggi l’unica strada percorribile poiché la globalizzazione consente economie di scala e accessibilità alle materie prime fondamentali. Un’eventuale frammentazione della produzione può portare solo a una minore efficacia ed efficienza, che metterebbero in pericolo il supporto alla salute della popolazione mondiale”, ha precisato.
IL PERICOLO DEL RESHORING
A farle eco Valentina Meliciani, secondo cui la deglobalizzazione, il reshoring e l’autosufficienza non possono rappresentare la soluzione al problema. “Una soluzione di questo genere creerebbe senza dubbio uno shock che non sappiamo dove avrebbe luogo e che potrebbe colpire anche l’economia domestica. Guardando proprio alla settore sanitario e farmaceutico, non possiamo pensare che un Paese da solo possa produrre tutta la tecnologia medica e il know-how chimici necessari, ad esempio, per sviluppare un vaccino in autonomia. Il futuro della globalizzazione appare incerto, ma rinunciare all’internazionalizzazione non è l’idea migliore per superare la pandemia in maniera efficace”, ha concluso.
GLI ERRORI DEL SISTEMA-ITALIA
Bisogna riconoscere, però, che alcuni errori sono stati compiuti, talvolta anche con irresponsabile perseveranza. Probabilmente, infatti, con uno sguardo di lungo termine sarebbe stato possibile prevedere – e prevenire – le conseguenze generate da anni di offshoring deregolamentato. “Si è parlato tantissimo della carenza prima delle mascherine e poi dei test, ma in una logica pubblica di gare basate squisitamente sul prezzo persino in settori strategici come quello della sanità è inevitabile che porti a un’erosione dei margini che porta le aziende a loro volta a frenare gli investimenti in quel settore”, ha commentato l’ad della casa farmaceutica. Rivelando, fra le altre cose, un altro dei grandi problemi del mancato slancio dell’economia nazionale. “Le grandi multinazionali hanno bisogno di investire sul lungo termine, per cui sono inclini a fare grandi investimenti nelle aree geografiche dove viene garantita stabilità politica, certezza del diritto e assenza di burocratizzazione”, ha puntualizzato. E l’Italia ha molto su cui lavorare.