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Lo smart working nella ricerca. Ecco l’indagine pilota del Cnr

Il recente intervento della ministra Fabiana Dadone sulle “attività smartabili” nella Pubblica amministrazione ha posto una questione di merito sull’impiego del lavoro agile, segnalando come alcune delle finalità perseguite dall’amministrazione pubblica richiedano necessariamente una prestazione lavorativa in presenza, mentre altre, per la natura della propria esecuzione, possano essere svolte, senza particolari conseguenze, anche al di fuori del perimetro degli edifici pubblici.

La ricerca pubblica sembra collocarsi in maniera naturale all’interno di questo contesto: al di fuori dei casi in cui sia necessaria la presenza in un laboratorio o l’accesso a macchinari di proprietà degli enti di ricerca, molte delle attività di redazione e presentazione di progetti, analisi di dati, scrittura di paper e articoli scientifici, riunioni di team possono essere realizzate in modalità smart con il supporto di un pc e di una adeguata connessione di rete.

Sullo smart working nel settore della ricerca pubblica, è stata realizzata, nel periodo del lockdown, una indagine dell’Irpps–Cnr, sotto la direzione scientifica di Sveva Avveduto. Scopo dell’indagine era porre in luce caratteristiche, limiti ed opportunità di sviluppo dello smart working all’interno degli enti di ricerca pubblici italiani con un focus sul Consiglio Nazionale delle Ricerche e l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Il questionario ha raccolto le risposte di 2721 unità di ricercatori, tecnologi, dirigenti amministrativi, personale tecnico e di amministrazione, tutti passati a sperimentare il lavoro agile nelle condizioni di emergenza determinate dalla pandemia Covid-19.

Alcuni dati emersi dalla ricerca, i cui risultati tematici sono in corso di pubblicazione sul sito www.irrps.cnr.it, appaiono rilevanti anche per l’attività dei decisori pubblici, attivi in questa fase ad effettuare una valutazione dell’esperienza dello smart working durante il lockdown e pronti a programmare ulteriori sviluppi di tale modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative. In un mondo focalizzato verso il conseguimento di risultati di performance e connotato dalla responsabilizzazione dei singoli componenti e dei team di ricerca verso il lavoro, l’applicazione dello smart working ha comportato , per le donne, la possibilità di sperimentare modalità alternative per la gestione del lavoro e per la gestione domestica e familiare (con la frequenza più elevata tra le risposte multiple disponibili del 15,5% delle risposte); mentre per i colleghi uomini è stato facile dedicarsi in modo esclusivo al proprio lavoro (con il 12,3%  dei rispondenti uomini, in cima alle possibilità di risposta multipla presentate).

Per quanto riguarda gli aspetti positivi maggiormente apprezzati dal personale di ricerca di Cnr e Ingv, il risparmio di tempo dedicato agli spostamenti da e per il posto di lavoro ha totalizzato il maggior numero di risposte, con il 66,7% delle donne e il 64,7% degli uomini che hanno apprezzato la possibilità di economizzare tempo e risparmiare lo stress da trasporto. Un elemento da considerare sia in termini di maggiore e migliore efficacia e produttività in termini di tempo e di disposizione al lavoro; sia in termini sistematici, immaginando spazi e tempi urbani non più connotati da ore di punta, con traffico e affollamento dei servizi di trasporto pubblico, ma un modello spazio-temporale di città gestito in maniera più libera rispetto ai ritmi di un lavoro “dalle nove alle sei”.

Il questionario ha rilevato anche la percezione degli aspetti negativi del lavoro agile: la perdita di socialità connessa alla compresenza fisica in ufficio – una socialità spesso produttiva di dibattito scientifico e di ulteriori idee e progettualità di ricerca – pesa rispettivamente al 66,8% delle donne e al 65,4% degli uomini intervistati. L’aspetto relazionale legato alla presenza fisica in un luogo di lavoro, dunque, non sembra trovare risposte adeguate nelle nuove tecnologie digitali di videoconferencing.

Un ulteriore fattore negativo, percepito rispettivamente dal 25,3% delle donne e dal 23% degli uomini del campione di risposta, riguarda la perdita della suddivisione tra tempo dedicato al lavoro e tempo libero. In questo senso, un intervento di disciplina ulteriore dello smart working, al di fuori della cornice emergenziale sperimentata, dovrà valutare la possibilità di integrare il lavoro smart e l’attività in presenza e di individuare correttivi, come il “diritto alla disconnessione”, per rendere il lavoro agile conforme agli obiettivi istituzionali, ma non invasivo della sfera personale del lavoratore.

Il questionario si chiude con una domanda sulla volontà dei rispondenti di protrarre l’esperienza dello smart working anche al termine della fase emergenziale. All’idea di prolungamento della modalità del lavoro agile, oltre la crisi Covid-19, rispondono in senso positivo il 54% delle donne e il 51,7% degli uomini. Si tratta di una percentuale notevole, che, con i rischi e le difficoltà pur rilevati nella valutazione del lavoro agile, va persino oltre le previsioni della ministra Dadone, di giungere al 40% del lavoro pubblico in modalità agile.

Questa indicazione sottolinea come, nella pratica, esistano attività più facilmente trasferibili nella dimensione del lavoro smart, e in cui vi sia una propensione verso lo stesso, ove esso venga disciplinato in modalità specifiche e coerenti con il settore di impiego. E se nel settore privato grandi aziende come Barilla, Enel, Vodafone, hanno già sperimentato e messo a punto nuovi modelli e formati organizzativi per favorire il lavoro agile, è giunto forse il momento di un grande piano di analisi di impatto dello smart working nella Pa, in grado di capitalizzare gli elementi positivi emersi dalla fase di applicazione in emergenza e di valutare la riduzione di impatto degli aspetti negativi sperimentati. Una buona base conoscitiva è sempre la migliore modalità per decidere interventi di riforma futuri, secondo il vecchio adagio di Luigi Einaudi “conoscere per deliberare”.


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