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Poesia di cinema e letteratura. 50 anni dalla morte di Giuseppe Ungaretti

La notte tra il primo e il 2 giugno 1970 ci lasciava Giuseppe Ungaretti. Ai suoi funerali, rito cattolico, lo Stato italiano non era presente. Tra i tre più noti poeti ermetici, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo e appunto Ungaretti, come le antologie scolastiche ce li hanno tramandati a partire dal secondo Novecento, quest’ultimo fu quello che non ebbe mai il premio Nobel. Ma se si chiedesse ai giovani chi è il poeta più noto del Novecento risponderebbero Giuseppe Ungaretti, per le note poesie “da esame di terza media e di maturità”, ossia, Fratelli, San Martino del Carso, I fiumi, In memoria, testi poetici che i ragazzi amano e tra i quali citano, con disinvoltura, Ed è subito sera (Salvatore Quasimodo), inclusa nel corpus ungarettiano d’esame.

Nato ad Alessandria d’Egitto (1888) per via del padre Antonio lì trasferitosi per lavoro, il giovane Ungaretti cresce con la cultura araba e francese, la lingua ufficiale della scuola, mescidata con quella italiana dei genitori. Rientrato in Italia si trasferisce, poco dopo, a Parigi nel biennio 1912-1913, entrando in contatto con gli intellettuali delle avanguardie francesi. Guillaume Apollinaire, che in quegli anni guardava al Futurismo italiano con interesse (a Parigi passava molto tempo anche Filippo Tommaso Marinetti), e poi Pablo Picasso, Georges Braque, Max Jacob, André Salmon ed altri.

Lo scoppio della Prima Guerra mondiale lo fa rientrare in Italia; decide di partire volontario come soldato. La sua terribile esperienza del fronte darà vita, sul piano letterario, alla poi famosa silloge Il porto sepolto (1916). Un’autentica rivoluzione nella lirica italiana ed europea: brevi versi sino al verso-parola, assenza di punteggiatura, alternanza tra maiuscole e minuscole. Per fotografare con la polaroid della lingua l’atrocità della guerra, la morte congelata, le case sventrate e sbrandellate, l’arsura d’amore, il dramma esistenziale prima dell’Esistenzialismo. Versi di forte impatto visivo anche perché “le parole sono messe in fila come in trincea”, secondo la felice definizione di Edoardo Camurri. Nel 1925 aderisce al Fascismo, nel 1928 si converte al cattolicesimo. Nel 1933 esce la sua seconda importante silloge, Sentimento del tempo.

Durante un viaggio per conferenze in America latina, siamo nel 1936, gli viene offerta la cattedra alla università di San Paolo. Accetta e vi si trasferisce con la sua famiglia. Nel 1939 il suo figlio, Antonietto, di soli nove anni, muore per una appendicite malcurata. Lo shock confluirà una silloge-snodo, Il dolore, edita nel 1947.

Intanto, nel 1942, in pieno conflitto mondiale, rientra in Italia e viene nominato professore ordinario di Letteratura italiana alla Università della Sapienza di Roma, “per chiara fama”. Alla caduta del regime, viene epurato. Ma nel 1947 è reintegrato e insegnerà sino alla pensione. Nel 1958 altro lutto: dopo lunga malattia muore la moglie Jeanne. Diversi gli allievi, cresciuti intorno alla sua cattedra.

Leone Piccione, Raffaello Brignetti, Elio Filippo Accrocca e Mario Petrucciani, poi professore nella stessa Università. (Chi scrive fu allievo di quest’ultimo, e ascoltò, insieme a decine e decine di allievi, le testimonianze dirette su Giuseppe Ungaretti, nonché le fini analisi dei suoi testi poetici: autentiche scoperte per diciannovenni assetati di letteratura).

Nel 1968 il volto e la voce di Ungaretti diventano popolari, grazie alle sottili “introduzioni”, leggermente espressioniste, alle puntate televisive dell’Odissea (1968), film-tv, di Franco Rossi, che milioni di spettatori potevano seguire in prima serata (purtroppo, per via della tecnologia di allora, in bianco e nero; solo anni dopo lo si potrà godere nell’originale “a colori”).

È curioso come il lungo percorso artistico di Giuseppe Ungaretti, in questo caso critico, si leghi, poco prima della sua morte, per un momento, al medium televisione, non temendo egli, a 78 anni, la sfida di parlare a un occhio di vetro, alla telecamera. Ungaretti portava “le sue quattro ossa” (I fiumi) in primo piano, con la sua particolare lingua e recitazione, si faceva “introduzione” a Omero, e all’esemplare film-tv di Rossi. Questo ci ri-porta obbligatoriamente alla sua raccolta d’esordio, Il porto sepolto, che potrebbe esser letta anche da questo punto di vista, ossia secondo i codici del cinema.

Prendiamo una lirica amata dei ragazzi e sovente loro cavallo di battaglia agli esami di maturità. Veglia. /Un’intera nottata/Buttato vicino/A un compagno/Massacrato/Con la sua bocca/Digrignata/volta al plenilunio/con la congestione/delle sue mani/penetrata/nel mio silenzio/ho scritto/lettere piene d’amore/Non sono mai stato/Tanto/Attaccato alla vita./

È innegabile come le parole isolate del testo, circondate dal bianco della pagina, rimandino inequivocabilmente a delle immagini in primo piano o a particolari (del corpo umano) o dettagli (di oggetti). “La bocca digrignata” è un chiaro particolare del volto, o PPP (primissimo piano) che ci fa pensare alle chine dei soldati martoriati dalle esplosioni di Otto Dix. E quando la parola non corrisponde a un oggetto fisico inquadrabile, come nel caso dell’aggettivo “tanto” (di “attaccato alla vita”), qui il primo piano è tutto psicologico e, dunque, ancor più coinvolgente.

La lirica I fiumi, sottolinea il primo piano ungarettiano, come ad es., la soggettiva, che è ricorrente nei suoi versi: “E guardo”. Interessante anche il passaggio per stacco (o taglio) di inquadrature simili, ma diverse dal punto di vista della scenografia e dell’azione: /Di un circo/Prima o dopo lo spettacolo/. Ancora, il ricorso al rallenty, con eventuale sovraimpressione: “Il passaggio quieto/Delle nuvole sulla luna/”. Infine, eccoci alla dissolvenza incrociata che si sarebbe fissata alcuni anni dopo, ma già pre-vista da Ungaretti nello scomparire, nel dissolversi. appunto, di un fiume nel successivo: dal Serchio, al Nilo, alla Senna. Infatti, diversi documentari, ispirati a I fiumi, hanno proposto il passaggio fra i tre fiumi usando proprio la dissolvenza e inquadrando il pelo dell’acqua. E, unire fiumi lontani nel tempo e nello spazio, ma simili nei temi (l’acqua; la purificazione; lo scorrere della vita, ecc.) è un esempio di chiaro montaggio in parallelo, o montaggio logico.

Il 1916, oltre all’anno di pubblicazione del Porto sepolto è anche l’anno di uscita, in Usa, di Intolerance di David Wark Griffith. Il regista statunitense fissa definitivamente alcuni codici filmici fondamentali: il dettaglio (le spade dei Babilonesi), il primo piano (la piccola Cara in tribunale), il particolare (gli occhi della la ragazza Occhi Bruni), il montaggio in parallelo (il tema dell’“intolleranza” attraverso tempi e luoghi diversi: Babilonia conquistata da Ciro; la Giudea al tempo di Cristo; la Francia della notte di San Bartolomeo; il Novecento). Non è errato considerare Ungaretti “il Griffith della letteratura”.

Non sappiamo se e quante volte Giuseppe Ungaretti, nel biennio 1912-1913, la sera, oltre al teatro, abbia frequentato le sale di cinema con Guillaume Apollinaire e Max Jacob, spettatori incalliti, affascinati dal cinema americano e dalla serie poliziesca Fantômas (1913, regia di Luis Feuillade). Sta di fatto che quando una rivoluzione estetica è nell’aria la si raggiunge percorrendo diverse vie.

(Foto Umberto Pizzi. Riproduzione riservata)



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