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Vintila Horia, l’esilio come dimensione metafisica

Vintila Horia è stato la personificazione vivente dell’esule. La Patria se l’è portata nel cuore per quarantasette anni. Randagio in due continenti, ha cercato di sopravvivere all’assenza dei profumi, dei colori, dei sentimenti della sua Romania, raccogliendo tra i ricordi dell’infanzia e della giovinezza i fogli sparsi di una vita che è stata generosa sotto il profilo creativo, ma assai avara sotto quello affettivo. Dalla privazione ha ricavato capolavori assoluti che, a ventotto anni dalla sua morte, sottolineano un “destino rumeno” che ha preso le forme tra le due guerre e porta incisi i nomi di Emil Cioran, Eugene Ionesco, Mircea Eliade e, appunto, Vintila Horia. Un destino che si è fatto carne macerata nella letteratura dove si è trasferito il dolore dei sopravvissuti alla crudeltà dei carnefici in combutta con i delinquenti europei che tra Bucarest e i Carpazi giocavano alla demolizione dello spirito europeo, costringendo i legionari ispirati dall’Arcangelo Michele e fautori di un “nuovo ordine” politico, a rinunciare a se stessi fino alla morte o all’esilio allo scopo di dare un senso all’esistenza che ad est della Penisola balcanica era difficile dargli, mentre Paesi di antica nobiltà venivano governati da militari felloni e da sovrani inetti e vigliacchi.

UN’ANIMA LACERATA

Horia non ha mai vissuto una stagione felice nella sua terra che gli è mancata come nient’altro al mondo e non gli è mai bastato l’incontro con altri “dispersi” europei per tentare di ricomporre in se stesso una “visione rumena” da poter condividere oltre le fratture delle ideologie che avevano massacrato popoli, regioni, tradizioni, costumi e religioni. Il “mondo peggiore” che non ha mai dimenticato, gli ha lacerato l’anima. Ed i suoi romanzi, come i saggi e gli scritti sparsi di letteratura varia sono stati i fiumi dai quali si è fatto bagnare, anzi inondare per sentire il vitale slancio verso esistenze non sue, ma che che era costretto ad inventare giorno per giorno.

Una volta, nella primavera del 1978 credo, se non m’ingannano i miei taccuini ormai ingialliti, mi disse: “La letteratura europea è stata corrotta e distrutta dall’ideologia. Per esempio in Italia il ‘piano Gramsci’ finisce con la morte della letteratura. Non ci sono in questo momento in Italia grandi romanzieri perché la espansione della letteratura è stata ostacolata dall’omogeneità (conformismo) della sinistra. Dunque, più ideologia meno letteratura”. Horia rimaneva interdetto davanti ai popoli della vecchia Europa che si lasciavano sedurre, quando non stuprare dall’ideologia, fosse pure per scrivere un romanzo o imbrattare una tela o far finta di parlare con Dio tra le mura di chiese che grondavano ricchezze sublimi come quelle d’Oriente, prima di diventare dei garage o depositi di mercanzie simil-teologiche.

“Lo spettacolo più triste del nostro tempo – scriveva – è l’impegno con cui popoli come l’italiano, lo spagnolo, il francese e il tedesco, che hanno creato la cultura occidentale, si dedicano allo sport delle ideologie. I migliori fra gli europei imitano oggi gli americani e i russi, popoli primitivi, assai dotati per le imprese tecniche, però incapaci di creare cultura: popoli distruttori della religione, ovverosia di ciò che unisce. Uno spagnolo marxista, un italiano anarchico o un francese freudiano rappresentano per me vere e proprie contraddizioni in termini”.

contro il mio tempoQueste contraddizioni, a livello planetario in verità, le stigmatizzò in Considerazioni su un mondo peggiore, pubblicato in spagnolo nel 1978 e in italiano nel 1982, ed ora sottratto al l’oblio dalle edizioni Oaks con il titolo Contro il mio tempo (pp. 230, € 20,00) nel quale, senza nascondersi dietro il comodo schermo dell’impossibilità di reagire, lanciò Dostoevskij e Nietzsche, Jünger e Heisenberg e Abellio in un atto d’accusa violento contro la decadenza.

Decadente, comunque, lo liquidò l’universo positivista del tempo. Così, davanti a Considerazioni su un mondo peggiore la critica si scagliò contro Horia che peraltro si era limitato a descrivere le forme delle nequizie contemporanee, e non le profondità abissali della natura umana come il grande russo. Avevano ragione entrambi, come Ernst Jünger combattente contro “lo spirito del tempo”, tentato dal “passaggio al bosco”, “anarca” per convinzione e passione dell’attraversamento dell’impossibile, intricato nella foresta post-umana di Heliopolis. “Spira come un’aria di disfatta, nel finale di Sulle scogliere di marmo e di Heliopolis, quando i personaggi che simboleggiano i valori difesi dallo stesso autore debbono lasciare il loro paese e andarsene via. Ma verso dove?”, annotava lo scrittore rumeno.

SENZA META, SENZA PATRIA

Anche Horia fu costretto ad andarsene. Dovunque. Senza meta. Privo di bussola. Alla conoscenza di quel “mondo peggiore” che avrebbe incontrato nelle chiese sconsacrate dalla modernità, nella volgarità del progresso come gli avrebbe fatto intravvedere Abellio, nel razionalismo selvaggio che avrebbe portato alla disumanizzazione postuma dopo la celebrazione delle rovine di Hiroshima e Nagasaki: “Io non mi trovo in una posizione avversa al mio tempo, ma allo spirito del mio tempo”. Definitivo. Senza appello.

Che cos’è Considerazioni su un mondo peggiore se non la descrizione dell’esilio spirituale, al quale alludevamo all’inizio, dall’umanità incomprensibile e confusa che il rumeno vagheggiante l’impossibile ritorno non disprezza, ma neppure le è indifferente. E come potrebbe? Lui, il credente, l’apostolo di una religiosità romano-bizantina, figlio dell’Europa dei margini dove si rifugiavano gli esiliati come lui, poteva non versare qualche stilla di amaro fiele sulle membra disfatte dell’Occidente ignorante del suo canone fatto di memorie e di musica, di storie e di illusioni, di combattimenti e di sconfitte, di vittorie e dissipate battaglie, di glorie serbate per mostrarsi nella luce boreale di un mattino immaginato – solo immaginato – alla fine dei tempi, quando a Wall Street come sulla Piazza Rossa si sarebbe consumato il rogo della modernità lasciando cenere davanti agli occhi dei contemplatori? No, non era possibile.

Leggo, leggiamo: “Dai pulpiti delle chiese, convertite alle manipolazioni e alle deformazioni del secolo, ci parlano del sociale e dell’uomo, e sempre meno di Dio; della vita più che della morte. E anche dell’uomo universale, dell’universalizzazione e socializzazione come forme attuali per fare dell’uomo un’entità universale. Ciò è falso come tutto il resto. Perché le religioni del mondo non coincidono con il sociale. Risulterebbe impossibile e assurdo lanciare un appello ai popoli, cristiani, maomettani e buddisti, invitandoli a mettere in comune i loro tesori sociali, le loro forme di vita comunitaria, le loro architetture visibili, il contenuto esoterico della polis, perché proprio in questi campi essi non hanno nulla in comune, o molto poco”. Un grido d’allarme consapevole, lanciato oltre le nazioni e le ideologie, circa mezzo secolo fa, che oggi trova risposta nello sfacelo del sacro disperso nel “mondo peggiore”. E sembra che non ci resti altro che la malinconia di Dostoevskij, l’irato anatema di Nietzsche, l’esilio interiore di Jünger, il disincanto di Abellio. E, naturalmente, l’apostasia di Horia rispetto alla modernità inguardabile alla quale lui, “contadino del Danubio”, era allergico e girovagava la Spagna, più di altri Paesi, dove aveva trovato il “nido” più caldo, nei cui anfratti nascosti rinveniva quelle tracce di spiritualità che gli erano indispensabili per dare un significato al suo peregrinare di esiliato.

Nato a Segarcea, il 18 dicembre 1915, dopo un lungo e tormentato percorso, nel 1946 approdò a Firenze, sua “patria ideale” dove strinse fraterna amicizia con lo scrittore Giovanni Papini, anzi un vero e proprio sodalizio al quale partecipavano numerosi intellettuali toscani che facevano corona al vegliardo animatore delle riviste del primo Novecento.

Durante questo periodo collaborò con diverse riviste letterarie e giornali, tra cui il “Perseo” di Magda Gaggioli e “l’Ultima” di Adolfo Oxillia. Il periodo fiorentino sarà rievocato dall’autore nel libro Giovanni Papini, pubblicato a Parigi nel 1963 da Wesmael-Charlier e dall’editore Volpe in Italia nel 1963. Più che un omaggio, il volume è una sentita e doverosa apologia dell’Italia a fronte dei secoli e lume nella notte della cultura sopraffatta dalla barbarie. Papini gli appare come il nume tutelare di una comunità che stava insieme per reagire alla decadenza.

Nel 1946 il Tribunale del Popolo rumeno condannò Horia in contumacia ai lavori forzati a vita con l’accusa di avere sostenuto, tramite la sua attività giornalistica, l’alleanza della Romania con le Forze dell’Asse: un falso macroscopico, considerando che venne perseguitato dalle truppe del Terzo Reich, come è stato ampiamente documentato. Dopo quest’ennesimo affronto, lo scrittore abbandonò per sempre la Romania dove, nel frattempo, si era insediato un cannibalesco regime comunista prono agli voleri di Stalin. Nel 1948, con la famiglia emigrò in Argentina, dove si diede all’insegnamento della lingua e della letteratura romena presso l’Università di Buenos Aires e alla collaborazione con le riviste “La Nacion”, “Sexto”, “Continente” e “Historium”; trovò anche il tempo ed il modo di fondare il periodico “Nouvelles d’Argentine”. Nel 1953 Horia rientrò in Europa e si stabilì definitivamente a Madrid dove ottenne l’insegnamento presso la Escuela Oficial de Periodismo.

LO “SCANDALO” DEL PREMIO GONCOURT

Nella capitale iberica inizia ad elaborare, prima in spagnolo e poi in francese, il romanzo Dieu est né en exil (Dio è nato in esilio) il “ diario” fantasioso, ma non privo di dati storici inoppugnabili, di Ovidio (nella foto in alto) negli anni del suo esilio. In un certo senso la sua autobiografia spirituale. L’opera, coronata da un grande successo, apparve a Parigi nel 1960 presso le Edizioni Arthème Fayard. E nel novembre dello stesso anno, una giuria formata da Hervé Bazin, Roland Dorgelès, Gérard Bauer, Philippe Dériat, André Billy, Jean Giono, Pierre Marc Orlan, Raymond Queneau, Armand Salacrou, gli attribuì il prestigioso Premio Goncourt.

L’evento divenne un caso internazionale, politicamente sfruttato dalla sinistra europea. Nei giorni immediatamente successivi alla decisione della giuria, infatti, il quotidiano comunista l’Humanité, in collaborazione con le autorità comuniste di Bucarest, pubblicò numerosi articoli nei quali venivano rivelate, in maniera artefatta, le trascorse simpatie politiche di Vintila Horia, citando vari passaggi tratti da riviste nazionaliste romene degli anni Trenta e Quaranta in cui lo scrittore sosteneva apertamente la politica delle forze dell’Asse e del maresciallo Antonescu. Naturalmente non era vero niente. Ma la campagna diffamatoria viene ripresa dalla stampa francese e dai maggiori media internazionali. Per mettere fine alle polemiche Horia decise di rinunciare al Goncourt che, per l’edizione 1960, quindi non venne attribuito a nessuno.

Dio è nato in esilio è senza alcun dubbio il capolavoro di Vintila Horia. In esso la sua condizione di esule è “parafrasata” da quella di Ovidio che descrive con accenti lirici e partecipi. È uno dei più bei romanzi del Novecento, un autentico gioiello che sottolinea la spiritualità viva dell’opera di uno scrittore che più ha sofferto nelle sue carni il dramma dell’esilio e la spaventosa dissoluzione dell’Europa. Il libro prende spunto da un altro celebre esilio, quello del poeta Ovidio scontato nelle ingrate terre del Ponto Eusino per volere di Augusto, ritenendolo capro espiatorio del degrado dei costumi sessuali dei romani, mentre la corruzione si annidava nella sua stessa famiglia, è la summa, in un certo senso, delle peregrinazioni di un viandante alla ricerca di se stesso.

Tra i Geti il poeta di Sulmona, al quale Horia nella finzione letteraria attribuisce confessioni e descrizioni di usi, costumi e tradizioni di popoli lontani, trova ciò che a Roma non poteva trovare: l’affrancamento dalle convenzioni ipocrite e dall’ossequio al potere incarnato da un autocrate. Il suo cammino iniziatico lo porta a contatto con le peripezie di genti umili tra le quali si fa strada la convinzione dell’esistenza di un Dio unico “che ridarà al genere umano la freschezza del principio”. Ovidio avverte dentro di sé la spinta verso “un nuovo sole” dopo aver conversato con i saggi e qualche improbabile sacerdote sopravvissuto ad una religiosità arcaica. Fino a quando non incontra un medico greco che gli dischiude le porte alla rivelazione. Quel Zalmoxis di cui parlano i Geti è forse nato davvero in un remoto villaggio della Giudea per prendere su di sé tutte le angosce dell’umanità?

Ovidio, com’è noto, non farà mai più ritorno a Roma. Glielo negarono sia Augusto che Tiberio. Morì a Tomi, sul Mar Nero, nell’attuale Romania, nel 17 d.C. Horia, ne ha condiviso il destino concludendo come il poeta la sua esistenza lontano dalla patria. Ovidio probabilmente trovò Dio nelle sue peregrinazioni impervie; Horia toccò con mano la crudeltà delle imposture ideologiche. Dio ce l’aveva nel cuore da sempre.

L’uno e l’altro, comunque, rinacquero nell’esilio.

(Photo credits: Kurt Wichmann)


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