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Conte e Di Maio, due vite (comunicative) parallele. L’analisi di Antonucci

Sembrano passati anni, forse decenni, da quando Conte, impeccabile nel coordinamento stilististico di giacca, cravatta e pochette giurava, per la prima o la seconda volta non conta, come premier, e da quando Luigi Di Maio, senza cravatta di ordinanza, esultava vigorosamente dal balcone di Palazzo Chigi per aver sconfitto la povertà, grazie alla introduzione del provvedimento del reddito di cittadinanza.

L’esperienza della pandemia e del lockdown sembrano aver spazzato via quei due mondi, pure in filigrana, ugualmente autentici delle esperienze di governo del Conte 1 e del Conte 2. Non c’è da stupirsi che Covid-19, un’esperienza così significativa da essere già iscritta nel racconto della storia, possa aver cambiato modelli di assunzione delle decisioni politiche, stili di leadership, processi di relazione con le rispettive basi elettorali, sempre più simili alle fanbase come suggerisce lo studioso Van Zoonen.

Lo stile comunicativo dei due leader, Di Maio e Conte, sembra aver cambiato radicalmente il percorso individuato nel corso degli ultimi mesi. L’istituzionalissimo presidente del Consiglio che, nel corso della conferenza stampa multipiattaforma delle 20.00, comunicava il senso e la direzione delle decisioni prese, sollecitandoci ad assumere comportamenti responsabili di conseguenza, sembra aver lasciato il posto ad un leader politico alla ricerca di una comunicazione disintermediata con la gente.

Dopo l’inizio della fase tre, e in corrispondenza di un percorso che vede Conte alla ricerca di una capitalizzazione elettorale del consenso personale raggiunto durante il lockdown, sono iniziate una serie di iniziative mediatiche sicuramente più orientate alla disintermediazione e alla prossimità con il popolo.

Ecco cambiare la scelta di argomenti politici e toni, come nei casi della concessione autostradale ad Aspi, come nei commenti al Mes e alle vicende sul Recovery Fund. E, da un punto di vista formale, ecco arrivare le passeggiate mattutine fuori da Palazzo Chigi, alla ricerca di un bar dove bere il caffè, con il consueto contorno di domande più o meno informali dei giornalisti e il flash dei selfie.

Ecco arrivare le missioni in tutta Italia, con il corredo di saluti ai cittadini, incroci di gomiti, passeggiate fuori programma, spesso senza giacca e cravatta, quasi a sollecitare da vicino il popolo a cui si è rivolto solo mediaticamente durante il lockdown. In altre parole: il salto nel cerchio del fuoco della dimensione protocollare delle visite del presidente del Consiglio dei ministri, alla ricerca, nella realtà e sui social, di una cifra comunicativa più autentica e vicina al popolo, dopo i lunghi mesi di divieti e brutte notizie associati alla figura istituzionale.

Era un tratto già sperimentato nell’epoca pre-Covid, con palleggi improvvisati e chiacchierate con anziani e bambini, ma che ora sembra essere ulteriormente spinto dalla comunicazione di Conte, che, sulla scorta anche delle vicende politiche di M5S e Conte stesso, si fa più orientata alla dimensione politica che all’impostazione istituzionale.

Antitetica appare invece la selezione di strategia comunicativa sperimentata da Di Maio, che già leader politico del Movimento, dopo il discorso di passaggio del testimone alla gestione Crimi, rincorre ora le tinte tenui della mediazione, dell’understatement (a volte con esiti paradossali, come nella circostanza delle dichiarazioni sul colloquio con Mario Draghi) e dell’istituzionalizzazione della propria figura.

Se la strategia comunicativa deve avere la sua parte in questa nuova veste di Luigi Di Maio, il percorso dentro al ministero degli Affari Esteri può essere considerato come un elemento fondativo di questa transizione istituzionale. Varcare ogni giorno il poderoso portone del ministero degli Esteri e percorrerne gli infiniti corridoi di marmo bianco, avere le giornate scandite da incontri al vertice all’insegna del Cerimoniale della Repubblica, applicare il più assoluto rispetto della ragione protocollare nelle relazioni quotidiane, essere coadiuvato da una delle ultime tecnocrazie della Pa, quella diplomazia italiana che, ancora oggi, sembra uscire direttamente, per rituali e pratiche, dai mondi di Talleyrand e von Metternich, sono tutti elementi che hanno contribuito alla trasformazione dello stile comunicativo di Luigi Di Maio.

Una mayfairladyzzazione dei registri comunicativi dovuta a processo di assimilazione all’ambiente diplomatico, in cui il giovane esponente politico risulta inserito quotidianamente. Al tempo stesso, il dorato esilio nella splendida cornice ministeriale, tra l’ovattata dimensione della sala dei mosaici o dei mappamondi e la buvette del ministro, deve essere sembrato il modo migliore per predisporre un profilo di leadership internazionale, in grado di dialogare direttamente con le cancellerie di tutto il mondo. Una scelta sicuramente pensata in termini politici, ma che rischia di spuntare le unghie al giovane leader, il cui maggior capitale politico non è e non sarà mai la presenza sullo scacchiere internazionale, ma, al contrario, il consenso popolare.

Il ministero degli Esteri rischia di essere l’argine alla dimensione politica nazionale di Luigi Di Maio, senza trasformarsi davvero nella chiave di accesso ad un profilo internazionale a contatto diretto con i leader globali. E allora, sarebbe comunicativamente coerente e politicamente opportuno che i due leader del Movimento 5 Stelle smettessero di scambiarsi i personaggi interpretati di fronte alle rispettive basi elettorali. La coerenza di una figura politica costituisce il cuore stesso della relativa comunicazione e ripara dai rischi di smarrimento di una cittadinanza e di un elettorato confusi dalle sperimentazioni di questo tempo difficile. Sarebbe bene che i due esponenti politici e i relativi staff di comunicazione riflettessero su questo.

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