Skip to main content

Una (vera) politica industriale. Di Taranto spiega come non sprecare il Recovery Fund

Il governo ha fretta e forse fa bene. Sull’Italia stanno per piovere 209 miliardi frutto del Recovery Fund approvato nell’estenuante Consiglio europeo del 18 luglio (durato quasi cinque giorni, caso unico nella storia dell’Ue): 81 miliardi di trasferimenti e 127 miliardi di prestiti. E pensare che il bottino italiano originario prevedeva 84 miliardi alla prima voce e 91 alla seconda. La cifra attuale fa dell’Italia il primo beneficiario, con il 28% dei fondi e un peso sul Pil intorno al 13%.

Con ogni probabilità già domani, dovrebbe tenersi la prima riunione del Ciae, il Comitato interministeriale affari europei, che il premier Giuseppe Conte vorrebbe come centralina per l’individuazione dei capitoli di spesa su cui dirottare le risorse. Poi ci sarà un comitato tecnico in affiancamento e forse un coinvolgimento del Parlamento, con due commissioni monocamerali, di cui una presieduta dall’azzurro ed ex ministro, Renato Brunetta. Perché l’Europa le sue condizioni per elargire i fondi le ha messe. Niente sprechi, solo investimenti duraturi e capaci di generare ricchezza nel lungo termine. E niente soldi a pioggia, come troppe volte accaduto in passato, fa notare a Formiche.net Giuseppe Di Taranto, economista, docente alla Luiss e storico delle imprese.

Di Taranto, è in arrivo uno tsunami di miliardi dopo l’accordo sul Recovery Fund. Ma gli sprechi sono dietro l’angolo. Dove investire?

I fondi che arriveranno dall’Europa hanno una loro condizionalità. Per esempio una grossa parte deve essere impiegata nella digitalizzazione, in nuovi piani industriali e nell’aumento dell’occupazione. Dunque, questo è il primo argine allo spreco, l’obbligatorietà di usare i soldi per gli investimenti. Una cosa è certa, occorre un salto culturale nella gestione di questo enorme flusso di denaro, un salto che mi auguro avvenga.

Il governo sembra ci stia provando. Si parla di commissioni parlamentari, comitati, task force…

Sì, noto che si sta studiando il veicolo più consono per questa spesa. In particolare il Ciae sarà un organo più che tecnico-scientifico tecnico-politico visto che è composto da ministri. Il punto però rimane sempre quello, evitare di buttare soldi che sono tanti. Prima del Covid-19 noi eravamo già il fanalino di coda dell’Europa, ora con questi soldi possiamo riprenderci le posizioni perdute, ma per farlo c’è solo un modo e torno alla domanda precedente: gli investimenti più importanti da fare sono quelli nelle infrastrutture, i quali devono essere preceduti da piani industriali ad hoc. Questo deve fare il governo per evitare di sperperare questo patrimonio.

Scusi se insisto, ma la statistica non è dalla nostra. L’Italia viene da lunghe gestioni di spreco e mala gestio dei fondi ricevuti…

Certo, e sa perché? Perché non abbiamo una politica industriale e non la abbiamo da anni. La mancanza di una politica industriale ha prodotto anni di interventi a pioggia e scoordinati tra loro, che hanno dilapidato le risorse. E questo è dimostrato anche dalle condizioni attuali del nostro Mezzogiorno, che non riesce a uscire dal tunnel in cui è entrato. Adesso la pandemia ha provocato un ritorno dello Stato nell’economia, dopo che dagli anni 90 ha cominciato a scemare la nostra produttività e dopo anni di mercato concorrenziale in cui molte aziende pubbliche sono state privatizzate. Detto questo, dato per appurato un ritorno dello Stato nell’economia, adesso la sfida che abbiamo dinnanzi una grande sfida, quella dei fondi del Recovery. Anzi ce l’hanno le imprese, che dovranno beneficiare al massimo di queste risorse.

Oggi il ceo delle Generali, Philippe Donnet, ha rilanciato una suggestione: un grande patto Stato-privati nel nome degli investimenti. Secondo lei è quello che serve?

Diciamo che è qualcosa di augurabile ma non prettamente necessario.

Vuole spiegarsi?

Il problema non è tanto stabilire se la gestione di un’azienda deve essere pubblica o privata ma verificare la sua profittabilità. In altre parole il suo stato di salute, a prescindere dalla sua natura. In tempi di crisi come questo, una maggiore gestione pubblica in alcune imprese, come l’Ilva, è opportuno utilizzarla. Perché non sempre il mercato è buono e lo Stato è cattivo. Più che di patto parlerei di necessità di rimettere lo Stato al centro. Ricordiamoci sempre quanto fatto dall’Iri dopo la Seconda guerra mondiale.

Di Taranto, a proposito di Stato, non posso non chiederle di Autostrade. Operazione di mercato, certamente, ma per molti non lo è. Lei che dice?

Che tutto dipende dalla gestione. L’intervento della Cassa Depositi e Prestiti non implica necessariamente una statalizzazione, si tratta solo di permettere allo Stato di gestire un asset ma con regole di mercato. Più volte il mercato è stato indicato come qualcosa di molto giusto, di perfettamente concorrenziale ma ci siamo dimenticati come spesso lo stesso mercato abbia rischiato il default, con tutte le conseguenze del caso. E ogni volta che il mercato è fallito è intervenuto lo Stato. Il Covid dimostra questo, la stessa Europa ha dovuto permettere l’intervento dello Stato nell’economia. Non è vero che lo Stato è sempre il colpevole.



×

Iscriviti alla newsletter