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Farmaceutica driver per l’economia nazionale. Parla Frega (Novartis Italia)

Sono due le grandi eredità che il cigno nero del Covid-19 lascia all’Italia secondo Pasquale Frega, presidente e amministratore delegato di Novartis Italia appena nominato a capo del gruppo di aziende farmaceutiche europee e nipponiche all’interno di Farmindustria. La prima è la consapevolezza che la sanità e la farmaceutica rappresentano un motore per l’economia e possono fungere da volano per la ripresa post-Covid. La seconda, un’apertura da tempo anelata a nuove partnership fra pubblico e privato. Con un unico grande ostacolo ancora da superare: silos e tetti di spesa, primo grande freno della farmaceutica nazionale.

Lei è appena stato nominato a capo del gruppo di aziende farmaceutiche europee e nipponiche all’interno di Farmindustria. Quali sono le priorità dell’Associazione e delle aziende del comparto a capitale europeo?

Dopo il Covid, le priorità di Farmindustria sono cambiate significativamente e oggi ci troviamo ad affrontare due questioni di primaria importanza. La prima dettata dal fatto che grazie al Covid tutti – governanti e cittadini – hanno capito che la salute rappresenta un motore per l’economia e che quindi non è da considerare come una spesa da contenere ma una cosa su cui investire.

E la seconda?

La seconda è rappresentata dalla possibilità di partnership che questo periodo buio ci ha concesso. E si tratta di una grande opportunità proprio perché finalmente rappresenta una bussola anche per il governo, che non a caso ha dato ampio spazio alla sanità anche all’interno del Def.

Dunque: ruolo della sanità nell’economia nazionale e partnership. E poi, quali altre priorità abbiamo?

Sicuramente la trasformazione digitale, ma anche un diverso approccio alla cura e alla gestione delle malattie croniche tramite la domiciliarizzazione e, non da ultimo, un sistema di finanziamento del sistema che superi la dinamica dei tetti di spesa che, come ormai dimostrato da anni, non funziona.

Tutti goal in linea con le aziende europee…

Assolutamente, anche perché le aziende europee rappresentano tutte le anime del sistema farmindustriale, dalla sostenibilità dei farmaci generici all’innovazione delle tecnologie delle Car-T. Le aziende europee sono presenti in Italia da decenni e continueranno a esserlo. E sono pronte ad aumentare il proprio impegno. Ma l’attrazione di maggiori investimenti dipenderà dall’attuazione del piano del governo che, sulla carta, risulta favorevole.

Le sfide e le priorità emerse dopo il Covid sono effettivamente neonate, o le abbiamo solo scoperte adesso?

Direi entrambe. In parte sono state riconosciute priorità che erano già esistenti ma che venivano trascurate, in parte ne sono nate di nuove. La situazione pre-Covid era bloccata – bisogna riconoscerlo – e molte erano le barriere che impedivano una collaborazione più fattiva fra pubblico e privato. Inoltre si aprono opportunità precedentemente non sperate, come la possibilità di uscire dalla dinamica dei silos che impedisce quella visione di insieme fondamentale per uscire dalla crisi e per gestire in maniera più intelligente le risorse disponibili.

Più intelligente in che senso?

In un senso molto semplice, il più ovvio che si possa immaginare. L’industria farmaceutica non ha mai richiesto risorse aggiuntive perché capisce e comprende i limiti della finanza pubblica, ma chiede che le risorse destinate alla farmaceutica restino alla farmaceutica. Una cosa che può apparire ovvia, ma che oggi incredibilmente non accade. Bisogna imparare a riconoscere il valore dell’investimento in salute al di là del beneficio diretto per il paziente perché vi sono tante altre ricadute positive, come ad esempio i costi assistenziali che diminuiscono grazie a determinati farmaci e che purtroppo non vengono considerati nell’analisi costi-benefici.

Farmaceutica… Qual è l’apporto che può dare alla struttura economica del nostro Paese e perché il suo ruolo di driver economico non è stato riconosciuto nella giusta misura (se è così)?

È difficile risponderle, perché i numeri sono gli stessi da anni, da anni indicano trend positivi e sempre da anni, ormai, vengono portati all’attenzione delle istituzioni. Che però, a causa di un pregiudizio nei confronti del settore, hanno spesso ignorato la cosa. A fine aprile la flessione su base annua dell’export in Italia era del 41%. Nello stesso periodo, le esportazioni di beni farmaceutici hanno registrato un +16,7%. Non credo sia necessario aggiungere altro. Anzi, forse sì. Per esempio il fatto che l’Italia sia diventata leader di settore in Europa, superando dopo anni di testa a testa la Germania. Per non parlare poi dell’occupazione. Per ogni lavoratore diretto ve ne sono quattro indiretti che vanno a riempire le fila dell’indotto, con un moltiplicatore di grandissimo valore impiegatizio per l’industria.

Possiamo dire che solo con il Covid l’Italia ha colto appieno la vocazione strategica, anche da un punto di vista geopolitico, della sanità e del farmaceutico?

Assolutamente sì. Al tempo della prima Sars – le faccio un esempio – il governo francese condizionò la fusione di due colossi dell’industria farmaceutica, Sanofi e Aventis, allo scopo di garantire il vaccino ai propri cittadini nel caso in cui l’epidemia fosse arrivata in Europa. Cosa vuol dire? Che gli altri governi hanno colto l’importanza strategica del farmaceutico già dieci o quindici anni fa, mentre i governi italiani dormivano. Nonostante l’importanza strategica dell’industria farmaceutica nazionale fosse – ed è – nettamente più forte di quella francese. Possiamo dire che il Covid ci ha dato una bella svegliata, non solo rispetto al perseguimento del benessere dei pazienti, ma anche rispetto al ruolo che il pharma riveste nello scacchiere internazionale.

Si parla tantissimo di innovazione, ma ad oggi non sembra chiaro quanto sia importante non solo da un punto di vista di efficacia, ma anche di efficienza. Perché?

Il sistema oggi non è ancora pronto per sfruttare l’innovazione nel pieno delle sue potenzialità. Ci sono ancora molte barriere che non fanno bene all’innovazione e che anzi ne impediscono un’adozione a trecentosessanta gradi. Ma anche in questo, durante l’emergenza Covid, abbiamo assistito a veri e propri miracoli: tematiche come telemedicina e teleassistenza, mai affrontate dal SSN a causa del carattere prettamente ospedalecentrico, sono salite alla ribalta.

Quindi il problema è il sistema ospedalecentrico?

In realtà questo tipo di sistema porta grandi benefici, come un controllo e una gestione della spesa più attenti, ma per le malattie croniche è un dramma. Ecco, in questo campo abbiamo assistito a un’inversione di quasi 180 gradi. Si è preso atto che l’innovazione e la trasformazione digitale possono cambiare le sorti del sistema. Ed è su questo che dobbiamo puntare, ricordando i benefici per la salute dei pazienti e per la salute dell’economia.

Parliamo ora di payback e tetti di spesa, spina nel fianco della farmaceutica nazionale. Diciamo che voi del settore siete tutti un po’ concordi nel dire che andrebbero eliminati. Ma con quale alternativa? E a che punto siete in questa battaglia?

Come ho già accennato, l’industria rivendica una cosa molto semplice, quella di mantenere ciò che è destinato alla farmaceutica all’interno della farmaceutica. Oggi abbiamo un tetto, quello della cosiddetta convenzionata, che è sottospeso per circa un miliardo e un altro, quello della diretta, ovvero dell’ospedaliera, che è sottofinanziato. Quindi il primo punto è far si che tutto ciò che è destinato al farmaceutico resti al farmaceutico, indipendentemente dal tetto sotto il quale risiede. La legge stabilisce che il 14,85% del Fondo sanitario nazionale debba essere speso in acquisto di farmaci. E questo non avviene. Il secondo aspetto è che il sistema dei tetti di spesa va superato, perché impedisce di valutare il reale effetto che nuovi farmaci e tecnologie hanno su altri capitoli di spesa.

Posso chiederle un esempio?

Certo, anche più di uno. Se un farmaco consente una deospedalizzazione precoce, per esempio, è vero che il sistema sanitario spende per il farmaco, ma al contempo risparmia nei costi di ospedalizzazione. Ma questo, l’attuale sistema non lo considera. Non solo. I costi risparmiati non possono nemmeno essere investiti ulteriormente in farmaci, perché “ufficialmente” non provengono dal farmaco bensì dalla mancata ospedalizzazione. Lo stesso discorso può essere fatto per un farmaco che scongiura un’operazione chirurgica molto costosa. O, infine, per un nuovo farmaco che, grazie all’innovazione farmaceutica, può essere utilizzato a casa del paziente, senza necessità di prestazioni ospedaliere. Ecco, bisogna superare questa visione, guardando il sistema in maniera olistica. Si tratta dell’unico modello in grado non di farci investire di più, come in molti credono o temono, ma di farci investire meglio. La farmaceutica non chiede più fondi, chiede solo di poter utilizzare quelli di cui già dispone in maniera efficiente.

Un’ultima osservazione sul nostro sistema sanitario… Dov’è una falla che non vediamo?

L’Italia è un Paese dove esiste un Fondo sanitario nazionale di 117 miliardi, ma dove la spesa out of pocket è di 45 miliardi di euro, con la percentuale di spesa out of pocket più alta d’Europa. Ecco, una riorganizzazione del sistema di cure deve guardare anche a questo aspetto, dove il cittadino è chiamato a utilizzare le proprie risorse, e non al meglio.



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