Il governo con il ministro Stefano Patuanelli e l’accorta regia del presidente Conte è impegnato in una serratissima trattativa con lo staff tecnico di Arcelor Mittal per giungere o ad una piena intesa con essa – ma solo sulla base delle linee guida dell’accordo del 4 marzo fra AmInvestco e i commissari sul futuro dell’Ilva e del suo impianto di Taranto – o ad una svolta (auspicata anche dallo scrivente) che veda lo Stato riprendere possesso del Gruppo per rilanciarne la produzione in logiche di piena ecosostenibilità.
I punti su cui si discute sono com’è noto: ingresso di capitale pubblico tramite (pare) Invitalia in AmInvestco Italy; percentuale e finalità di tale presenza (se solo finanziaria e/o anche gestionale) nella compagine di quella che diventerebbe una joint-venture pubblico-privata; deleghe operative ai rappresentanti degli azionisti; piano industriale con fissazione a 8 milioni di tonnellate della capacità massima del sito con l’avvio (graduale) della sua decarbonizzazione, grazie all’utilizzo anche di fondi comunitari; rifacimento dell’Afo5; introduzione di un forno elettrico alimentato con preridotto di ferro; costruzione di un impianto per produrlo con l’ingresso nella società che lo realizzerebbe di altri capitali privati; definizione nella fase di transizione e a regime degli assetti occupazionali a Taranto e là dove il Gruppo è presente con altri grandi siti (Genova e Novi Ligure); avanzamento e completamento dell’Aia.
Alcune domande: ma come potrebbe essere Invitalia ad entrare nella società in joint-venture con Arcelor Mittal, avendo un capitale sociale di (soli) 836,3 milioni? Per l’operazione allora questa società non avrebbe bisogno o di essere ricapitalizzata, o di un fondo di dotazione conferitole ad hoc dal governo? Inoltre, con l’ingresso di capitale pubblico con una percentuale che (si dice) potrebbe raggiungere il 49%, chi sarebbe l’amministratore delegato della società? Presumibilmente un top manager designato dall’azionista di maggioranza, ma approvato anche dall’azionariato pubblico.
Ma quest’ultimo che ruolo avrebbe con i suoi rappresentanti? Di stretta sorveglianza sulla piena e celere attuazione del piano industriale ? E nei patti parasociali si stabilirebbero clausole di unanimità per l’esercizio dell’intero gruppo ? E poi, come si posizionerebbe il siderurgico ionico nella scacchiera degli altri siti di Arcelor in Europa e, soprattutto, nei confronti di quelli concorrenti di Dunkerque e di Fos sur mer? Non esiste il rischio concreto che una pur concordata capacità di 8 milioni di tonnellate di acciaio liquido garantita a Taranto non venga poi mai impiegata al massimo, per non creare concorrenza ai due impianti francesi di AM ?
E i possibili e paventati (dai sindacati) esuberi con l’introduzione del forno elettrico e una riduzione delle cokerie come verrebbero gestiti e ricollocati ? E il completamento dell’Aia non potrebbe essere accelerato, anticipandolo dall’agosto del 2023 al 31 dicembre 2021, lavorando per ultimarla h24 per sette giorni la settimana, e coprendo anche i parchi minerali ‘secondari’ Nord coke e Omo? E quali nuovi rapporti si stabilirebbero con le aziende dell’indotto che, al momento, vantano crediti commerciali fatturati, scaduti, ma non liquidati e che pertanto sono ormai diffidenti verso un azionista come Arcelor considerato inaffidabile ? Ed infine, quali rapporti stabilirebbe la società partecipata da capitale pubblico con il territorio, le sue Istituzioni, il mondo della ricerca e della cultura presenti nel capoluogo e nel suo hinterland?
Ora, in questo scenario nazionale e per alcuni aspetti anche europeo che si presenta di estrema complessità, ha creato forti preoccupazioni a livello governativo che a Taranto l’Amministrazione Comunale, invece di assecondare lo sforzo dell’Esecutivo, abbia deciso di muovere guerra al gruppo franco-indiano, chiedendo però non solo la rottura di ogni trattativa con esso, ma anche la dismissione sic et simpliciter dello stabilimento, con la contestuale sottoscrizione di un Accordo di programma che nelle intenzioni del Sindaco dovrebbe impegnare Palazzo Chigi a creare non meno di 15 mila posti di lavoro per tentare di alleviare la paurosa voragine occupazionale che si creerebbe non solo in città ma nell’intera Puglia con la chiusura del siderurgico.
Non è allora una posizione oltranzista quella sostenuta dal primo cittadino del capoluogo ionico che rischia di apparire così contrapposta ad ogni tentativo del Governo di concludere positivamente – salvando occupazione e capacità produttiva del sito – una vicenda che dal 26 luglio del 2012 si trascina da otto lunghi anni? Ci si è forse convertiti repentinamente ai dogmi dell’estremismo ambientalista?
Ma così facendo non rischia il primo cittadino del capoluogo ionico di restare e apparire solo – o con pochissimi seguaci – contro tutti? Governo, Sindacati, azienda, gestione commissariale, Autorità di sistema portuale, Confindustria, Confapi, Banche, ed anche, a questo punto, contro la Regione, il cui Presidente Emiliano, in vista della difficile campagna elettorale del prossimo settembre, ha voluto giustamente ricordare la sua posizione che è quella di puntare non alla chiusura, ma alla decarbonizzazione dell’acciaieria: un obiettivo su cui – con la gradualità tecnicamente necessaria – sta lavorando anche il governo con il supporto di Invitalia.
Ma poi si è proprio sicuri a Palazzo di città che la stragrande maggioranza della popolazione voglia la chiusura del siderurgico? Si è proprio sicuri che dopo gli effetti economici nefasti del lockdown da Covid-19 la stragrande maggioranza dei cittadini voglia andare incontro ad un’altra catastrofe, questa volta epocale, causabile dalla dismissione dell’intero impianto?
Catastrofe i cui effetti devastanti renderebbero quelle oggi sofferte sul territorio per la pandemia conseguenze di modesta entità. Ed inoltre non induce a qualche riflessione autocritica la posizione occupata dal Sindaco nella graduatoria dei 105 sindaci dei capoluoghi italiani per l’indice di gradimento dei cittadini amministrati, pubblicata dal Sole 24 Ore lunedi 6 luglio? In base a quella graduatoria – che ha visto al 1° posto il Sindaco di Bari Decaro – Melucci si è collocato in centesima, ovvero in quint’ultima posizione, avendo perso secondo quel sondaggio ben 8,7 punti percentuali rispetto al consenso goduto all’atto della sua elezione.
Allora, dando all’amministrazione comunale un consiglio (non richiesto), le suggeriamo di cambiare posizione sull’Ilva mantenendola però ferma nel tempo, assecondando così il lavoro del governo e, soprattutto, non chiedendo più dismissioni al buio dell’intera acciaieria. E si seguano i saggi orientamenti espressi da lungo tempo dall’Arcivescovo di Taranto Monsignor Santoro – il cui preoccupato silenzio sulle ultime affermazioni del Sindaco – richiama ancora una volta l’opinione pubblica locale alla necessità di coniugare (sempre) con tutti gli interventi possibili, urgenti e necessari la difesa della salute e dell’ambiente con la tutela del lavoro di migliaia di operai, tecnici, quadri e dirigenti – cui sono da aggiungere quelli delle aziende dell’indotto – di una fabbrica che resta, nonostante tutto, per numero di occupati diretti il più grande impianto manifatturiero d’Italia. Lo ripetiamo, amici di Taranto, il più grande impianto manifatturiero d’Italia, classificato da tempo come “stabilimento di interesse strategico nazionale”.