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Vi racconto le tre Italie del dopo Covid. Becchetti legge l’Istat

L’eredità del coronavirus. Un Paese fragile, tramortito e diviso. L’ultimo rapporto annuale dell’Istat, presentato questa mattina a Montecitorio, è a tratti impietoso. Un volume che ogni anno fotografa le condizioni economiche e sociali del Paese. Quest’anno però le cose sono un po’ diverse, perché la nostra economia, come tante altre, è stata travolta dalla peggior crisi dal 1945 ad oggi. E il lascito di tutto questo è pesante. Il primo effetto è sul welfare, sul benessere delle persone, dei giovani, sempre più frammentato.

L’ITALIA DEL DOPO COVID

La pandemia, scrive l’Istituto di statistica, “produrrà i suoi effetti anche nelle dinamiche di riproduzione sociale delle diseguaglianze collegate alle classi sia perché c’è una diversa esposizione ai rischi, legata ad esempio al tipo di lavoro, sia per una differente vulnerabilità in termini di malattie croniche e di capacità di avvantaggiarsi delle cure disponibili”. Secondo aspetto, si è fermato l’ascensore sociale, in pratica la speranza di migliorare la propria condizione economica: più di un quarto (26,6%) è infatti mobile verso il basso, un valore che, oltre a essere più alto rispetto a tutte le generazioni precedenti (era 21,8% tra i nati prima del 1941) supera per la prima volta quello di chi è mobile in senso ascendente (24,9%). Dunque, una fetta consistente della popolazione italiana, non sta migliorando la propria condizione economica.

Terzo aspetto non si fanno più figli. Eppure se ne vorrebbero: “L’Italia”, scrive l’Istat, “è un Paese a permanente bassa fecondità. Il numero medio di figli per donna per generazione continua a decrescere dai primi decenni del secolo scorso, ma il numero di figli effettivo che le persone riescono ad avere non riflette il diffuso desiderio di maternità e paternità presente nel nostro Paese”. I numeri parlano chiaro: la paura e l’incertezza causate dalla pandemia porteranno entro il 2021 a un calo di 10mila nuovi nati, passando dai 435mila del 2020 a 426mila alla fine del 2021.

LE TRE ITALIE

Formiche.net ne ha parlato con l’economista di Tor Vergata ed esperto di welfare e disuguaglianze, Leonardo Becchetti. “Siamo dinnanzi a un ritorno alla vecchia immagine delle tre Italie (quasi di pari dimensioni) della fondazione Hume. Quella protetta dei dipendenti pubblici, delle grandi imprese private, dei professionisti ad alta qualifica. Quella dei piccoli commercianti ed autonomi che faticano a stare in piedi. Infine quella dei disoccupati, degli inattivi, dei lavoratori in nero o nel settore informale”, spiega Becchetti.

“L’effetto della pandemia”, continua, “sulle tre Italie, al di là delle inevitabili differenze d’impatto di settore (con quelli a più alto assembramento colpiti di più), è stato molto diverso. Come ci hanno raccontato Banca d’Italia e il Censis prima dell’Istat il primo terzo ha addirittura guadagnato. Il suo reddito è rimasto inalterato, i consumi si sono forzatamente ridotti e i risparmi sono dunque aumentati. Gli altri due sono andati giù perché non avevano protezioni o difese. La differenza con la crisi finanziaria globale del 2007 che pure aveva aumentato diseguaglianze è che stavolta le risorse per combattere le diseguaglianze ci sono. Alcune cose già c’erano (reddito di cittadinanza) altre sono state messe in campo (reddito di emergenza bonus alle varie categorie colpite)”.

UNA GENERAZIONE A RISCHIO

Seondo l’economista il rischio intrinseco a questa crisi è che un’intera generazione rimanga tagliata fuori non solo dal mercato, ma anche dalla formazione stessa al lavoro. Il che vorrebbe dire giocarsi buona parte del futuro. “Fondamentale è prevenire le diseguaglianze e combattere le diseguaglianze di opportunità. Dopo il Covid a settembre un’intera generazione o almeno la parte di essa legata ai ceti meno fortunati rischia di perdere accesso al sistema di formazione ed istruzione. Bisogna evitare assolutamente che qualcuno perda il treno che ridurrà in futuro il rischio di essere risucchiato in basso solo per colpa del Covid”.

RIDARE UNA SPERANZA AL PAESE

Ma come la mettiamo con l’ascensore sociale che si è fermato, anzi sembra sta andando al ribasso? Becchetti offre una soluzione in questo senso. “L’Italia ha comunque un punto di vantaggio che è il nostro sistema sanitario nazionale che, nonostante i limiti e le diseguaglianze regionali, è uno strumento fondamentale per il welfare. Dove veramente siamo indietro è sulla formazione. Siamo tra gli ultimi in Europa come quota di laureati. Senza investimento in capitale umano le possibilità di ascensore sociale sono di molto ridotte. L’ascensore sociale funziona ancora quando si ha il coraggio di puntare con forza su se stessi. Molti giovani non ne sono consapevoli e forse le loro famiglie non li aiutano. Il compito del sistema formativo, a partire dalla scuola superiore, deve essere quello di fare emergere motivazioni e passioni che sono fondamentali per l’investimento faticoso in competenze. Dobbiamo rimuovere tutti gli ostacoli a investimento e crescita formativa delle nuove generazioni se vogliamo curare il problema delle diseguaglianze alla radice”.



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