Da Londra a Roma, si scalda la partita europea per la rete 5G. Mormorata da settimane, è alla fine arrivata la decisione di Boris Johnson di escludere (e disinstallare) dalla rete la cinese Huawei, come richiesto dagli Stati Uniti. L’Italia può essere la prossima nella lista, e non ha intenzione di fare spallucce, assicura a Formiche.net Mirella Liuzzi, sottosegretaria al Mise del Movimento Cinque Stelle che segue da vicino lo sviluppo della rete. Ecco la “terza via” fra Pechino e Washington che il governo rossogiallo vuole imboccare.
Liuzzi, da Londra arriva una sveglia sul 5G cinese.
Credo sia una decisione dettata da più ragioni, anche geopolitiche. Una virata a tutti gli effetti: fino a qualche mese fa il governo inglese era di altro avviso. Ovviamente questa mossa avrà un impatto notevole sul mercato, soprattutto quello britannico, dove gran parte della rete 4G è già di Huawei.
Inizialmente avevano optato per un tetto del 35% nella rete non-core. Può funzionare?
Quella scelta nasceva da un bilanciamento fra ragioni politiche ed economiche. Dopotutto gran parte degli operatori lavorava con vendor cinesi. Non è facile smantellare da un giorno all’altro una rete già installata.
Anche in Italia qualcosa si muove. Tim non ha invitato Huawei alla gara per la rete core.
Anche in questo caso, penso che le ragioni di mercato si intreccino con quelle geopolitiche. Ho l’impressione che la scelta di Tim nasca soprattutto in relazione al Brasile, Paese dove l’azienda vanta una presenza molto forte. In Italia Tim ha già contratti di collaborazione con Huawei, e non stupisce. I vendor sono pochi, è inevitabile lavorare insieme. Anche perché i tempi stringono: in Italia siamo avanti sul 5G, abbiamo fatto in anticipo la gara sulle frequenze.
E la sicurezza?
In due anni abbiamo fatto tre decreti legge sulla sicurezza delle reti strategiche e del 5G, abbiamo rafforzato il perimetro di sicurezza nazionale cibernetica, insieme a quella francese la nostra è la normativa più stringente in Europa. Ovviamente teniamo conto delle preoccupazioni sulla sicurezza e non ignoriamo il contesto geopolitico. Ma questa via “normativa” ci sembra la più equilibrata.
In cosa consiste?
Nel golden power, ad esempio. È stato rafforzato notevolmente in questi mesi, nessun altro Paese europeo ha maglie così strette anche sulla rete 5G. Poi c’è il perimetro cyber, che ha concluso in questi giorni il suo iter parlamentare.
Ma il perimetro è in ritardo. E intanto la rete va avanti.
Ci sono problemi tecnici che impediscono di accelerare. Sono richieste competenze innovative e altamente specializzate nella sicurezza cibernetica che non è facile trovare all’interno della Pubblica amministrazione. Il Mise sta seguendo la creazione dei Cvcn (Centri di valutazione e certificazione nazionale, ndr), Palazzo Chigi si occupa della parte pubblica. Per i bandi e i concorsi ci vuole ancora del tempo.
Un 5G europeo oggi è fantascienza?
Al contrario, è quello che speriamo. Sui temi digitali e non solo ci confrontiamo con due colossi, Cina e Stati Uniti, con cui non conviene agire in solitaria. Senza un’iniziativa europea rischiamo di trovarci esclusi dalla partita. L’Europa deve trovare un approccio comune a tutti gli Stati membri.
Quindi che si fa? Sussidi a pioggia come in Cina?
Più che sovvenzioni statali, io immagino più un sistema di regole comuni. Il mercato si è mosso in anticipo e già fa rete, i costi nel settore sono elevati. Avere un quadro normativo uniforme aiuta ad abbassarli e a velocizzare sulla realizzazione del 5G.
Non solo 5G. Il governo in questi giorni è preso anche dal dibattito sulla rete unica fra Tim e Open Fiber. Voi per chi tifate?
Per nessuno, o meglio, per la rete unica. Mi sembra che maggioranza e opposizione siano sulla stessa linea. Tutti vogliamo la rete unica, il problema è mettere d’accordo i due contendenti. Ma sulla necessità di accelerare, e di avere un’infrastruttura pubblica strategica nelle mani dello Stato, non c’è alcun dubbio.